Parole chiave del Concilio: l’omelia
di Severino Dianich
Il termine “omelia” che sta avendo fortuna nel magistero papale, in realtà non faceva parte del linguaggio cattolico prima del Vaticano II. Si usava la parola “predica”. È stato il Concilio a rimettere in onore il termine classico “omelia”.
Agli inizi di questo nuovo pontificato stiamo assistendo a un fatto straordinario: se sfogliamo le pagine de L’Osservatore Romano, possiamo notare che in gran parte sono occupate dalle omelie della celebrazione eucaristica quotidiana del Papa, più che da discorsi programmatici, encicliche o documenti. Non saprei dire, naturalmente, se si tratta di una precisa idea di Papa Francesco, di voler dare al suo magistero soprattutto la forma dell’omelia. Ma il fatto risveglia la prospettiva di un magistero papale, meno impostato giuridicamente e moralisticamente e più chiaramente scaturito dalla meditazione della parola di Dio all’interno dell’azione liturgica.
Riflettendo sulla teologia del papato, in un mio libro di pochi anni fa, ponevo infatti l’interrogativo: come mai un’enciclica, firmata a tavolino nelle stanze del palazzo, dovrebbe avere più valore per la coscienza cattolica di un’omelia pronunciata dal Papa all’ambone, mentre, nella ricca atmosfera di grazia del sacramento, egli celebra l’eucaristia, meditando con il suo popolo le sante pagine della parola di Dio? Il termine “omelia” che sta avendo una particolare fortuna anche nel magistero papale, in realtà non faceva parte dell’abituale linguaggio cattolico prima del Vaticano II. La parola più usata era “la predica”. Ora, “fare la predica”, è diventata un’espressione poco simpatica. Chi si sente fare la predica in genere si irrita, perché rimproverato e, per di più, in maniera pedante e noiosa. Dal grande patrimonio dei Padri della Chiesa ci sono pervenute in grande abbondanza le loro prediche, pronunciate nelle celebrazioni liturgiche: le edizioni antiche come quelle contemporanee le intitolano: “Omelie di… su…”. Abbiamo in mano parole di Basilio o del Crisostomo o di Agostino o di Leone Magno o di Gregorio, e di tanti altri, che predicavano al loro popolo soprattutto durante la messa, commentando il vangelo di Giovanni, o la Lettera ai Filippesi, o la Genesi, o il profeta Geremia, ecc.
Ho trovato nel blog di un pastore battista americano una curiosa tabella su due colonne: nella prima si illustrano le caratteristiche dei “sermoni”, come si usano chiamare le prediche nelle comunità protestanti, nella seconda quelle delle “omelie”. Al pastore battista i sermoni risultano discorsi di tipo accademico, nel quale il predicatore sceglie i testi biblici a partire dall’argomento sul quale intende esortare la sua congregazione: egli ne deplora i comportamenti negativi e preme sul “Dovete! Tu devi!”. Nelle omelie, invece, ci si relaziona con gli uditori, scorrendo con il pensiero sui testi per interiorizzarne il senso: è un camminare insieme nella verità di Dio con la Sacra Scrittura. Il genere accademico, a dire il vero, non è frequente negli ambienti cattolici, ma bisogna riconoscere che vi si corre il rischio di sostituirlo con l’improvvisazione, che è cosa assai peggiore, nella quale si dà sfogo alle delusioni ricevute dal proprio gregge e, talvolta, ai propri risentimenti.
La qualità dell’omelia è ben altra: anche se è solo il prete a parlare, predicatore e fedeli si pongono insieme, in un atteggiamento partecipe, di ascolto comune, di fronte alla parola di Dio, al punto che Gregorio Magno poteva dire alla sua gente, al termine di una omelia, che egli non sarebbe stato in grado di trarre dalla Sacra Scrittura le cose che aveva loro detto, se non avesse avuto davanti a sé i loro volti, le loro attese, la loro ispirazione.
Riforma del Vaticano II
È stato il concilio Vaticano II a rimettere in onore il termine classico “omelia”, esaltandone il diretto rapporto con la liturgia e la lettura della Sacra Scrittura: «Nella celebrazione liturgica la Sacra Scrittura ha un’importanza estrema. Da essa infatti si attingono le letture che vengono poi spiegate nell’omelia» (SC 24). Nella Chiesa cattolica avevamo alle spalle una tradizione plurisecolare, nella quale lo stesso termine Homiliae, dal Trecento in poi, era scomparso, per cedere il posto alla parola Sermones. Alla sparizione del termine, in quell’epoca, si accompagnava anche la scomparsa dalle chiese dei monumentali amboni, autentici troni elevati per ospitare il Libro sacro, la sua lettura e il suo commento.
Una delle ultime grandiose opere create per esaltare la proclamazione del Vangelo è l’ambone di Giovanni Pisano nella cattedrale di Pisa, questo sì veramente degno di essere il luogo nel quale Cristo si rende «presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura» (SC 7). Con la riforma liturgica del Vaticano II ritornerà a brillare nella celebrazione eucaristica la Liturgia della parola e in essa riprenderà nuova vita la pratica dell’omelia. A questo ritorno corrisponderà anche la creazione di nuovi amboni, se pure in genere, dalle forme ben più modeste, quando non ci si accontenta di soluzioni posticce, del tutto indegne di sorreggere il Libro santo. Nel frattempo, all’ambone si erano sostituiti i pulpiti, non più collocati in prossimità dell’altare, perché destinati alla predica, fuori dell’azione liturgica. È stato merito storico dei frati mendicanti la vigorosa ripresa della predicazione nel XIII secolo, ma il suo distacco dalla liturgia significò anche l’abbandono del commento alla Bibbia, per privilegiare la precettistica morale, con la preoccupazione di istruire e di esortare alla coerenza dei comportamenti, attraverso la veemenza degli ammonimenti, nel frequente richiamo al giudizio di Dio e la minaccia dell’inferno. Sono forme di predicazione che poi, in epoca barocca, si svilupperanno nella ricchezza dell’invenzione retorica, i cui effetti sono ancora vivi nella memoria di noi ottantenni, che prima del Concilio ne abbiamo fatto l’esperienza.
Un momento impegnativo
Sul piano teologico e canonico, inoltre, il ministero della predicazione fu collocato esclusivamente sul piano dei problemi giuridici. La nuova prassi della predicazione, infatti, aveva suscitato soprattutto problemi di giurisdizione, sia nella controversia dei vescovi con i frati degli ordini mendicanti, che nel loro zelo attraversavano in libertà i confini delle diocesi, sia nella condanna degli “eretici”, da Valdo a Wycliffe, da Hus a Lutero, che sostenevano il loro diritto di predicare senza un consenso e anche contro l’autorità dei vescovi, in nome dell’imperatività del Vangelo. La separazione dalla liturgia e il distacco dalla Sacra Scrittura avevano reso la predica un atto specifico di carattere giurisdizionale, strumento della disciplina della Chiesa, per la promozione dell’istruzione dei fedeli, la difesa dell’ortodossia della dottrina e il controllo del costume sociale. Di questa eredità si scorgono ancora vestigia nelle omelie, quando il discorso non risulta seriamente coinvolto nell’ascolto del testo biblico e non appare appassionatamente teso a coglierne il mistero di grazia, per la comune crescita del prete e dei fedeli nella fede, ma piuttosto interessato ad altri argomenti, alla condanna della cultura e del costume dominante, alla determinazione di regole e norme del comportamento, a difesa della Chiesa e delle sue istituzioni.
La Costituzione conciliare sulla divina rivelazione vede tutta la predicazione e la catechesi concentrate nell’assorbire “un sano nutrimento e un santo vigore” dalla Scrittura e non manca di osservare che nell’insieme della cura pastorale «l’omelia liturgica deve avere un posto privilegiato » (DV 24). Sacrosanctum concilium al n. 24 sogna che nella liturgia il popolo cristiano possa riguadagnare «quel gusto saporoso e vivo della Sacra Scrittura, che è attestato dalla venerabile tradizione». Nel ministero dei pastori della Chiesa, quindi, vescovi, preti e diaconi, l’omelia costituisce uno dei momenti più alti, più esaltanti e più impegnativi. Il fatto, sottolineato dal Concilio, che l’omelia «è parte dell’azione liturgica» (SC 52) e che «la liturgia della parola e la liturgia eucaristica, sono congiunte tra di loro così strettamente da formare un solo atto di culto» (SC 56) danno all’omelia un accentuato carattere sacramentale e una particolare ricchezza di grazia. Questo è fondamentalmente vero, anche se le parole del celebrante non operano ex opere operato, come quando egli pronuncia le parole della consacrazione del pane e del vino, ma tanto sono efficaci quanto il celebrante risulta capace, con la sua fede, la sua competenza, la sua preparazione e la sua passione per la parola di Dio e per la crescita nella fede del suo popolo, di far parlare le antiche parole della Sacra Scrittura al cuore e all’intelligenza dell’uomo d’oggi.
Severino Dianich