14 Febbraio 2025

Duomo di San Donà

S. Maria delle Grazie – Diocesi di Treviso

Contenuti del sito

Duomo di San Donà
14 Febbraio 2025

Duomo di San Donà

S. Maria delle Grazie – Diocesi di Treviso

Duomo di San Donà

Contenuti del sito

Oratorio "Don Bosco"Storia

I novant’anni della posa della prima pietra dell’Oratorio

Il 15 maggio del 1927 si teneva la cerimonia della posa della prima pietra dell’Oratorio Don Bosco di San Donà di Piave. Ripercorriamo i tratti essenziali delle vicende che portarono alla chiamata dei Salesiani a San Donà e quindi alla costruzione dell’edificio che per tutti i Sandonatesi è l’”Oratorio”.

La storia dell’Opera salesiana di San Donà di Piave, l’Oratorio Don Bosco appunto, non può non iniziare richiamando il nome di mons. Luigi Saretta, l’arciprete che guidò il popolo sandonatese per 46 anni (1915-1961), attraverso due guerre mondiali.

Da giovane insegnante a Treviso, don Saretta aveva conosciuto con interesse ed ammirazione il metodo educativo di don Bosco. Dopo le distruzioni della prima guerra mondiale, combattuta nel territorio nell’anno 1917-18, il parroco di San Donà era pressato dall’esigenza di raccogliere e educare i tanti ragazzi orfani, privi di un’adeguata istruzione e spesso anche di una casa.
Già nel 1916 Saretta sarebbe stato ricevuto assieme a tre giovani dal Rettor Maggiore don Albera, a Torino, per il suo progetto per una Casa per i giovani.

Il 13 settembre 1920 il parroco scrisse un’accorata lettera ad un superiore salesiano, probabilmente l’Ispettore don Giraudi:
“(…) Confidando nella provvidenza divina ho stanziato subito la costruzione di un orfanotrofio, dove raccogliere i fanciulli orfani per mantenerli ed educarli cristianamente e dove nello stesso tempo aprire un rifugio alla gioventù maschile della vasta parrocchia (a fine anni ’20, la parrocchia, che coincideva con l’intera San Donà, contava 18.000 persone, ndr) seminata più che da rovine materiali, di spavento e miserie spirituali in causa della guerra.
L’edificio, bello e grandioso, volge al suo termine e io non so a chi meglio rivolgermi per affidare l’istituzione che ai benemeriti Figli di don Bosco, verso i quali ho avuto sempre la più grande venerazione (…)”
L’iniziale idea dell’arciprete era quella di far convivere la realtà oratoriana con quella dell’Orfanotrofio, attuale Casa Saretta.
La risposta concreta all’appello però tardava, nonostante i contatti, le richieste garbate ma pressanti, le visite e le promesse.
Nel frattempo (1925) l’arciprete acquistò un appezzamento di terreno edificabile, presso il cimitero, da destinarsi al futuro edificio dell’Oratorio.
Il terreno, già di proprietà Saccomani, nell’intenzione iniziale del parroco doveva in realtà essere destinato alla costruzione di un “terzo fabbricato”, in aggiunta cioè all’Orfanotrofio e agli adiacenti laboratori. Nell’atto di compravendita, di qualche mese dopo, viene tuttavia definita la destinazione d’uso della proprietà immobiliare: “ricreatorio e campo sportivo, nonché scuola professionale”.

Infine, la tenacia ed insistenza di Saretta, che faceva propri i bisogni e le aspettative della popolazione, vinsero la prudenza dei superiori della Congregazione, favorevolmente colpiti dalla sua “preziosa benevolenza per i Salesiani” e dalla sua “mirabile attività di illuminato zelo”.

Il Rettor Maggiore, Beato Filippo Rinaldi a San Donà

Nel 1926 il Rettor Maggiore, il beato don Filippo Rinaldi, in visita all’Orfanotrofio, rimase positivamente colpito e promise la presenza dei Salesiani a San Donà per il settembre 1927 (si concretizzò però nel 1928), esortando l’ispettore don Festini ad accontentare le richieste del parroco e della popolazione sandonatese, “…anche a costo di sacrifici”.
Il primo disegno dell’edificio, a cura dell’ing. salesiano Giulio Valotti di Torino, nel dicembre 1926 arrivò a Saretta, che non mancò di fornire alcuni suggerimenti.

La posa della prima pietra

Il 1927 è l’anno in cui vengono riconosciute le “virtù eroiche” di don Giovanni Bosco, che porteranno alla sua beatificazione e poi (l’1/4/1934) alla sua canonizzazione.
E già il 2 gennaio mons. Saretta presenta il programma per l’erigendo Oratorio.
Nel mese di maggio i fedeli di San Donà sono invitati a pregare la Vergine Maria per ottenere la benedizione sulla grandiosa opera.
L’8 maggio il salesiano don G. Acerbi viene da Belluno per illustrare l’opera di don Bosco, alla messa e al vespro, e al fioretto serale intrattiene sulla devozione a Maria Ausiliatrice. Il francescano p. O. Rasselle lo coadiuva nell’opera di sensibilizzazione per il compimento dell’opera, da ottenersi “con la preghiera, col sacrificio, con l’aiuto finanziario”.
Lunedì 9 maggio il salesiano don Carnelutti tiene alla sera nel salone dell’Asilo una conferenza con proiezioni sulla vita di don Bosco.
Il 12 maggio arriva a San Donà il vescovo di Nepi Sutri, il salesiano mons. Luigi Olivares (Venerabile). Egli ogni sera predica sul sistema educativo del futuro Santo don Bosco. La sua parola semplice ed umile suscita una grande impressione positiva e qualcuno già comincia a chiamarlo il “Santo Vescovo”.
Finalmente, con la protezione di Maria Ausiliatrice, tanto invocata per il buon fine dell’Opera, la posa della prima pietra avvenne con solennità e presenza di un numerosissimo popolo e le autorità religiose e civili domenica 15 maggio 1927.

Probabilmente la prima pietra è collocata nella parte centrale dell’edificio, cioè sotto l’attuale atrio o presso l’ufficio del direttore.

Iniziano i lavori e… arrivano i Salesiani

I lavori, diretti dall’ing. Ennio Contri, iniziarono il 3 agosto 1927; ad inverno appena inoltrato la struttura di mattoni della prima parte dell’edificio aveva già la copertura dei coppi: a fine 2010 questa parte dell’Oratorio è stata, con sostituzione delle capriate in legno e la risistemazione della soffitta.
Finalmente, con festosa e trionfale accoglienza, nel giorno della festa patronale lunedì 24 settembre 1928, arrivarono in treno a San Donà i primi tre Salesiani: il direttore don Riccardo Giovannetto, il chierico Luigi Ferrari e il coadiutore Mauro Picchioni.
I tre Salesiani, per alcuni mesi, furono ospitati nell’Orfanotrofio, gestendo il collegio per i 67 orfani maschi, mentre in un’altra ala isolata del medesimo Istituto, gestita dalle Suore di Maria Bambina, c’erano anche le orfanelle.

Mons. Luigi Olivares (1873-1943)

Il Venerabile mons. Olivares, che presenziò alla posa della prima pietra dell’oratorio di San Donà, nacque a Corbetta (Milano) il 18 ottobre 1873, quinto di quindici figli.
Alla famiglia, e specialmente alla madre, egli dovette quella fine e aristocratica educazione religiosa e civile che lo distinse nell’apostolato. Cresimato nel 1881, entrava successivamente nel pre-seminario di Seveso e poi di lì a Monza per il Liceo e la Filosofia. Frequentò i corsi di Teologia nel Seminario Maggiore di Milano, sotto la guida di don Pasquale Morganti, futuro vescovo di Bobbio e di Ravenna, che era stato alunno dell’oratorio di Valdocco.
Il chierico Olivares alla sua scuola apprese a conoscere ed amare il grande apostolo della gioventù don Giovanni Bosco. Fu durante questa sua permanenza a Milano che conobbe e avvicinò i Salesiani, verso i quali si sarebbe un giorno orientata la sua vocazione. Ordinato sacerdote il 4 aprile 1896, fu inviato come vicerettore del collegio Arcivescovile di Saronno. Qui trascorse otto anni rivelandosi sacerdote zelante, esemplare, indefesso nel suo lavoro, di un’eccezionale attività accompagnata da quella paternità che fu tipica di don Bosco. Per la sua assistenza premurosa e vigile veniva chiamato “la presenza di Dio”.
Nel 1904 ottenne finalmente di entrare nella Congregazione salesiana. Terminato il noviziato a Foglizzo Canavese e dopo appena sei anni di vita salesiana, fu inviato come parroco nel santuario di Santa Maria Liberatrice a Roma-Testaccio. A fare il suo nome era stato lo stesso cardinale Ferrari, a cui il Papa San Pio X aveva chiesto quale dei Salesiani da lui conosciuti gli sembrasse più adatto per un luogo così pastoralmente difficile. Al Testaccio il nuovo parroco darà il meglio di se stesso, conquistando con la bontà il cuore del suo gregge e trasformando, in pochi anni, un rione tumultuoso e anticlericale in una parrocchia fervente e dinamica. Ricercatissimo direttore spirituale, ebbe il confessionale “assediato da mane a sera”.
E il suo amore per tutti, anche per i nemici della Chiesa e del bene, fu eroicamente sublimato nel sacrificio: è noto l’affronto che gli si fece in pubblica strada con l’insulto e la percossa al volto, a cui don Luigi rispose offrendo evangelicamente l’altra guancia.
Il 15 luglio 1916 Benedetto XV promuoveva questo zelante parroco salesiano alle sedi episcopali di Sutri e Nepi.

Il novello vescovo tra i suoi propositi scriverà: “La tessera della mia vita episcopale, voglio che sia la carità: sincera, paziente, benefica, spirituale, disposta ad ogni sacrificio”.
Le sue cure più intense furono per il popolo, che richiamò alla pratica dei doveri cristiani; per i poveri, verso i quali fu di una larghezza e generosità senza confini; per i piccoli e gli adolescenti che avvicinava sovente nelle scuole, nelle associazioni parrocchiali e per strada.
Ebbe cure specialissime per l’Azione Cattolica che raccomandava ai parroci, anche quale atto di obbedienza alle direttive pontificie.
Nelle visite alle parrocchie, al mattino presto, non appena si apriva la chiesa, era immancabilmente presso il confessionale, e vi restava per lunghe ore senza stancarsi, ascoltando tutti con paziente bontà, e a tutti dispensando la sua parola rassicurante e illuminante. Il suo zelo poi nel dispensare la Parola di Dio ebbe dell’incredibile. Aveva un dire facile e chiaro, semplice ed arguto, bonario ed amabile, che scolpiva la verità nella mente degli uditori, e soprattutto li trascinava alla pratica del bene. E allorché toccava gli argomenti preferiti – l’Eucaristia, la Madonna, il Paradiso – la sua voce calda e convinta aveva risonanze di cielo.
La nota caratteristica della figura di monsignor Olivares fu l’amabilità del tratto, l’affabilità del volto, la delicatezza d’animo.
Amò straordinariamente i suoi sacerdoti, comprendendoli e difendendoli sempre. “Non l’ho mai sentito parlar male di alcuno…
In realtà il suo cuore era impassibile ad ogni rancore o avversione o risentimento”. Amò e fu riamato dalla povera gente. “Riceveva tutti nella sua casa e si può dire a tutte le ore, solendo affermare che la casa del vescovo era la casa di tutti e lui diceva esser a disposizione di tutti”. Riceveva ed ascoltava ognuno, accompagnandolo poi fino al portone con la berretta in mano. Quando andava a Roma si caricava sempre di pratiche e di commissioni affidategli dalla povera gente. Tornava carico di pacchi, pacchetti, documenti, provviste domestiche.

Interiormente distaccato da ogni comodità, ripeteva spesso la frase di don Bosco: “Il denaro è un buon servitore, ma un cattivo padrone”.
Testimoniò il suo segretario: “Per amore di povertà non si preoccupò di abbellire, di cambiare nulla nei palazzi, nella villa. Non mutò nemmeno i pagliericci sui quali dormì per parecchi anni, felice e contento. I familiari domandavano il cambio, ma egli rispondeva sorridendo: ‘Ci si sta così bene!’. Un bel giorno gli cambiarono il pagliericcio e misero anche a lui una rete metallica. Si lamentò, mostrò rincrescimento, ma poi, benché a malincuore, si adattò e tacque”.
Fu un uomo profondamente umile: “Con chiunque stesse, sembrava sempre destinato ad occupare l’ultimo posto”. E fu uomo di profonda pietà. Lasciò scritto uno dei parroci che visse più a lungo con lui: “Amò in maniera straordinaria la preghiera; vederlo pregare era uno spettacolo che non si dimenticava. Credo di non averlo mai visto seduto in chiesa, ma sempre in ginocchio, con il volto tra le mani o fisso nel tabernacolo, come se i suoi occhi vedessero qualcosa di soprannaturale. Nelle ore libere dal ministero o dai ricevimenti, quasi mai si tratteneva in camera e, se qualcuno cercava il vescovo, lo trovava sicuramente in chiesa. Dire che pregava continuamente è dir poco. È il modo con cui pregava e l’impegno che sempre metteva nella preghiera che stupiva”.

Morì il 19 maggio 1943 a Pordenone dove si era recato per predicare un corso di esercizi spirituali ai giovani liceali dell’istituto salesiano.
La fama di santità seguita alla sua morte fu immediata e vasta. Uno dei medici che lo aveva avuto in cura nell’ospedale di Pordenone confessò: “Fin quando la Chiesa cattolica possiede campioni come questo, è destinata a sempre nuovi e maggiori trionfi. Uomini così possono predicare il Vangelo e pretendere di essere ascoltati anche da increduli”. (sintesi da www.sdb.org)

A cura di Marco Franzoi