
Dom Helder Camara è morto il
28 agosto 1999 a 90 anni: arcivescovo di Recife,
è stato per tutta la vita voce dei poveri, espressione della tenerezza di Dio.
L’ultima volta che lo incontrai, sei anni fa, mi sembrò come rimpicciolito. Quei suoi immensi occhi, le grandi orecchie, la grande fronte lo facevano somigliare a una uistitì, una di quelle minuscole scimmiette brasiliane che tremano nelle mani dei loro venditori. Prima ci fu la messa che egli celebrava quasi cantando nella sua gioia di ministro del Signore; quando scese dall’altare per distribuire l’eucarestia, teneva la pisside accanto al cuore, come se fosse un bambino. Poi parlammo con lui nel piccolo patio del convento in cui viveva, ricordando lontani incontri romani; prima di andarcene ci chiese se volevamo fargli un regalo… Lo guardammo un po’ sorpresi: “Mi cantereste Quel mazzolin dei fiori? – domandò. Mi piace tanto”. Così in quell’angolo di città equatoriale le nostre voci incerte intonarono la più nota delle canzoni di montagna italiane; e un grande sorriso si distese sul volto dell’arcivescovo dei poveri.
Erano passati trent’anni dalla prima volta che lo avevo visto. La nostra casa romana di via Gregorio VII era diventata una specie di succursale del vicino Pio Colegio Brasileiro e i nostri amici un giorno telefonarono: “Questa sera viene a parlarci un grande vescovo, dom Helder Camara”.
Cominciavamo a capire qualche parola brasiliana, ma dom Helder parlava a velocità supersonica e fu impossibile (per noi) seguirlo; tuttavia non ci annoiammo neppure per un istante: la sua mimica, la sua capacità di modulare la voce, il suo sorriso erano straordinari. Io, che lavoravo in Tv, pensai: “Che meraviglioso comunicatore!”.
Erano gli anni del Concilio e la nostra casa ogni sera si trasformava in una specie di “salotto buono” di un gruppo di vescovi, teologi e sacerdoti che riflettevano su quella che si sarebbe chiamata “la scelta preferenziale dei poveri”, anticipo della “teologia della liberazione”. Venne anche dom Helder. Confessò di avere un grande mal di testa. Clotilde gli portò un’aspirina e un bicchier d’acqua. Ne bevve un sorso. Cominciò a parlare ma guardava sempre quell’acqua. A un certo punto mi disse sottovoce: “Non ho più sete, ma quando penso alla sete della mia gente…”. Prese il bicchiere e lo vuotò.
La sua gente era quella del Pernambuco, Nordeste: detto “il quadrilatero della fame”; terra di immense favelas, flagellata dalla siccità, e delle piantagioni di canna da zucchero in cui i braccianti vivono come schiavi. Da poco (nel 1964) dom Helder era diventato arcivescovo di Olinda e Recife. Olinda è una delle più antiche città brasiliane, Recife, nel suo prorompente sviluppo, forma con essa un solo immenso abitato. In questi due luoghi meravigliosi per architetture e spiagge e palmeti (e oggi fra i maggiori centri del turismo sessuale italiano) e nell’aridissimo interno pernambucano dom Helder giunse da Rio de Janeiro, ove era stato vescovo ausiliare. Vi giunse preceduto da una grande fama di predicatore ma soprattutto con una sensibilità per i drammi della miseria: era stato “convertito”, disse una volta, dal gesuita padre Lombardi, in Italia chiamato “il microfono di Dio”, il quale lo aveva spinto a visitare i quartieri più poveri della città. Nella nuova diocesi portò la parola – amabile e terribile – del Signore che amava i piccoli e cacciava i mercanti dal tempio.
“Quando do da mangiare ai poveri”, disse una volta dom Helder, “mi battono le mani. Quando domando perché i poveri hanno fame, mi chiamano comunista”. Un famoso giornalista italiano ha scritto, in morte di dom Helder, che egli “aveva idee confuse”. Quelle idee sui meccanismi di ingiustizia che producono la miseria (lo sfruttamento dei lavoratori da parte dei padroni, il latifondo, l’organizzazione multinazionale del capitalismo…) apparivano chiarissime ai capi della dittatura brasiliana, e agli “squadroni della morte”. Dom Helder fu battezzato “O bispo vermelho”, il vescovo rosso, e si cercò in tutti i modi di piegarlo. Era troppo noto, ormai, perché si potesse assassinarlo ma scritte minacciose e scariche di mitra ornarono ben presto i muri della sua povera abitazione; il suo vicario per Olinda, dom Marcelo Carvalheira, fu imprigionato a lungo in uno dei più spaventosi carceri, in cui ogni giorno udiva le urla dei torturati; un segretario di dom Helder fu letteralmente fatto a pezzi; laici che collaboravano con l’arcivescovo furono sequestrati e scomparvero o tornarono a casa annientati da orrende sevizie.
Dom Helder continuò per 21 anni la sua strada. Dal Vaticano gli giungevano consigli di prudenza ma a lui, rispettosissimo dell’autorità papale, premeva più la fedeltà ai poveri, nei quali riconosceva il Cristo: “Liberaci, Signore. La maggiore e più grave delle imprudenze è la propria prudenza che si fida di sé si trasforma in calcolo e prescinde dalle follie di Dio”.
Così come in Concilio difese sempre la priorità dell’evangelizzare gli emarginati, di fare giustizia, di non consentire che la Chiesa potesse essere assimilata alle istituzioni mondane.
L’amore per i poveri lo aveva spinto a moltiplicare istituti per la pastorale, per le ricerche, per la difesa dei diritti umani. Poeta di rara intensità, aveva scritto:
Non basta
che i poveri ti conoscano
e ti chiamino per nome:
è importante
che tu li conosca
e ne sappia la storia
e ne sappia il nome.
Tutto è stato demolito dal suo successore. Ma nessuno potrà demolire il ricordo di un uomo così santo da avere, oltre a tutto, immensa comprensione per i nemici della sua utopia.
Voglio salutare dom Helder con una sua poesia:
Grazie, Signore. Quando sentirai il tonfo
di un frutto maturo
che cade al suolo
loda Dio
in nome delle vite piene
dei frutti ormai da raccogliere
dei destini giunti a compimento.
di Ettore Masina
(da Graffiti n.8-1999)
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