Intervista a don Gino Perin sul Concilio Vaticano II
Quando chiesi a don Gino di potergli fare un’intervista sui temi del Concilio Vaticano II ero sicuro della sua disponibilità, conoscendo la sua predilezione per questo grande evento, che traspare ogni settimana durante le sue omelie. Non mi aspettavo, quando ci siamo incontrati, di trovarmelo davanti ad una bozza di indice e ad un libro pieno di appunti e memorie, di essere a tratti quasi travolto dalla sua ondata di ricordi, di doverlo a volte “arginare”, “costringendolo”, purtroppo, dentro alle domande fissate.
Che terreno trovava l’evento conciliare nella nostra diocesi?
Alla vigilia del Concilio la nostra chiesa non era in attesa di un qualche evento rigeneratore, come penso non lo fossero le altre chiese d’Italia. La nostra diocesi era fortemente sostenuta dalla sua tradizione di opere e radicamento nella gente. Tuttavia c’erano alcuni segnali di inquietudini che rivelavano la ricerca di qualcosa di diverso: il seminario vescovile, dove Mons. Carraro aveva introdotto un nuovo metodo educativo chiamato “autocontrollo o autodisciplina”, il movimento giovanile della DC, un gruppo di preti che si attivarono per dar vita ad un centro diocesano di pastorale, ne sono alcuni esempi.
Con quale atteggiamento da parte di sacerdoti e laici furono accolti l’annuncio e poi l’apertura?
Nella nostra diocesi era in corso il Sinodo Diocesano del 1961, indetto nel 1959 dopo tanti anni da quello di Longhin del 1911. Però della preparazione al Concilio non c’era nessuna eco, era un percorso parallelo. Si pensava avrebbe comportato qualche cambiamento, ma tutto sommato con una conferma della vita della Chiesa così com’era. C’era una disponibilità, da parte del clero, ad accogliere le indicazioni che ne sarebbero arrivati. I laici non avevano particolari aspettative, anche perché non c’erano abituati ad essere protagonisti attivi, ma attendevano le indicazioni della Chiesa-Autorità
Quali temi toccavano di più il nostro territorio? Quale dibattito si è sviluppato in quegli anni, quali le posizioni e le reazioni?
Durante il Concilio non ci fu molto dibattito sui suoi temi e sul suo svolgimento; tutto si mosse dopo il Concilio. Anche perché il Vescovo prese l’iniziativa di chiamare alcuni protagonisti del Concilio (Garonne, Conghar, Poletti…) a spiegare i documenti principali. Fu dunque dopo il Concilio che si sviluppò il dibattito: i principali effetti si avvertirono in seminario, dove i giovani seminaristi e sacerdoti sollecitavano una ricerca e un cambiamento “rapido” ritenuto in linea con il Concilio, Tutto ciò creò però anche delle tensioni e delle sofferenze tra sacerdoti posti su posizioni differenti.
Alla fine del Concilio dunque, quali furono le iniziative e le azioni intraprese da parte dei sacerdoti del clero diocesano? Quali le reazioni dei laici?
Nel suo insieme, il punto che fu da tutti accolto fu la Riforma Liturgica, avviata fin dal 1967, che introdusse nelle preghiere la lingua italiana, la divisione degli spazi, ma a parte questo non ci furono altri grandi scuotimenti nella vita della Chiesa diocesana.
Nel 1968 andai a Roma per un periodo di studio e quanto tornai, nel 1972, c’era un clima ricco di suggestioni frutto delle riflessioni sui testi conciliari. Con altri due sacerdoti (Don Franco e Don Lino ottenemmo di fare un’esperienza sacerdotale comunitaria, con la disponibilità ad un servizio diocesano secondo le competenze acquisite, per la gestione “in solido” di una parrocchia, con una cassa comune e la massima trasparenza nel controllo delle spese improntato a criteri di sobrietà e attenzione prioritaria ai poveri. In quegli anni girai molte parrocchie per illustrare i nuovi strumenti di gestione della parrocchia, come il consiglio pastorale e quello per gli affari economici.
Nella parte veneziana della diocesi, a Spinea, alcuni sacerdoti, sotto la guida di don Umberto Miglioranza, prendendo ispirazione e attingendo agli insegnamenti del Concilio, consolidarono il sostegno all’esperienza dei preti e dei seminaristi al lavoro, alla quale prese parte anche l’attuale vescovo di Campobasso Mons. Bregantin.
La riforma fu accolta con simpatia e riconoscenza da parte dei sacerdoti e anche dai laici. Ci fu un grande incremento dei catechisti (soprattutto delle catechiste), giustificati dai nuovo modo di intendere la Chiesa come popolo di Dio e lasciandosi guidare dai nuovi orientamenti che prevedevano la partecipazione e la collaborazione ecclesiale.
La vera applicazione seria, meditata e corale del Concilio da parte della nostra chiesa diocesana si ebbe a partire dalle settimane di aggiornamento pastorale di Paderno del Grappa, che si tennero dal 1974 al 1983, e che furono una grande occasione di confronto tra laici e sacerdoti e di appropriazione dei grandi orientamenti del Concilio rispetto alla nuova immagine della Chiesa: furono affrontati i temi della comunione, della partecipazione, della missione, della famiglia, della pastorale giovanile e altri.
Come ha vissuto lei tutti questi momenti (apertura, svolgimento, attuazione) pre e post-Conciliari?
Sono stato felice di trovarmi in un contesto in cui poter “inventare” qualcosa di nuovo che incontrava il “sogno” di una Chiesa più evangelica. Ho fatto delle sperimentazioni in parrocchia seguendo gli orientamenti dei Vescovi che aiutavano la Chiesa a riflettere su se stessa, vedendo i limiti e avviandosi su vie di rinnovamento partendo dal primato dell’evangelizzazione.
Quale valutazione/lettura darebbe in generale di quei primi anni post-conciliari nella nostra diocesi? E a cinquant’anni di distanza? Più le aspettative deluse o i traguardi raggiunti? Più le cose fatte o quelle da fare?
Superato un tempo che mi ha portato venti di nostalgia e delusione sulle cose non fatte, ad una riflessione più pacata credo che la nostra chiesa diocesana abbia beneficiato molto della spinta innovativa dell’aggiornamento conciliare. Ma sono dell’avviso che quanto fatto non basti: la Chiesa ha ricevuto le indicazioni del Concilio senza particolari fremiti, mettendosi poi in moto con calma. Dopo cinquant’anni, mentre la Chiesa sta iniziando a fissare solo ora il nuovo modo di affrontare la propria missione dentro la storia come suggerito dal Concilio, il mondo non è più quello di allora! Molto utile dunque sono queste celebrazioni, perché danno l’opportunità di ritornare ad aprire i testi conciliari, di rileggerli da parte dei più giovani e riflettere sulle cose ancora da realizzare, ma anche a ringraziare per le cose fatte e i doni ricevuti. La “fortuna” del Concilio, motivo per cui è stato spesso criticato, e che invece fu la grande intuizione avuta da Papa Giovanni XXIII, è il fatto che si è trattato di un “Concilio pastorale”. Per la Chiesa questa è stata una grazia, perché è sempre un “evento in corso”, si auto-rigenera, non è un qualcosa di statico e acquisito per sempre, è una continua spinta a modificarsi adattandosi ai tempi che cambiano.
Alla fine, la sensazione che mi rimane, è che molto altro avrebbe potuto essere detto, e forse un domani potrebbe essere scritto. La speranza, che mi auguro per il bene di tutta la chiesa diocesana, è che don Gino possa averne il tempo!
Renzo Rossetto