Gli auguri fatti al mons. Bruno Gumiero in occasione dei suoi 80 anni
D. Il prossimo febbraio lei compirà 80 anni: la sua fanciullezza e la sua adolescenza si sono svolte in un periodo nel quale in Italia la libertà (d’azione, di pensiero) non sempre era garantita.
Cosa ricorda di questi suoi anni?
R. Giunti al traguardo degli 80 anni (la Bibbia li riserva ai più robusti), si ricorda la fanciullezza come un tempo meraviglioso, pieno di gioia e di speranza. Vivevo in piena campagna; nei miei ricordi quei giorni erano senza inverno, sempre splendenti di sole, con campi coperti di verde e di fiori, e tanto correre per quei campi e lungo le siepi. Non ho memoria di aver avuto giocattoli, né di averli desiderati. Le condizioni socio-economiche di quel tempo… se le giudico con la mentalità e l’esperienza di oggi, le definisco senz’altro “condizioni da terzo mondo”. Ma la povertà non toglieva la gioia, del resto neppure la ricchezza rende sempre felici.
In quegli anni l’incessante propaganda del regime fascista, cercava di far dimenticare la mancanza di libertà e la triste condizione economica, propugnando forme di nazionalismo esasperate; nazionalismo che portò poi, tanti della mia generazione a patire e morire in guerra.
D. Sempre con riferimento a quegli anni della sua vita, come è nata e come ha potuto coltivare la sua vocazione al sacerdozio?
R. La mia chiamata al sacerdozio è arrivata con la voce di mia madre. Eravamo in otto tra fratelli e sorelle, di cui sei ancora vivi. Io sono il quarto della serie. Mentre mi preparavo alla Prima Comunione, allora la si faceva a sette anni, un giorno, mentre si parlava con gli altri fratelli su “cosa fare da grandi”, mia madre mi disse: “Tu Bruno potresti fare il prete”. Così quando andai a confessarmi la prima volta, dissi al confessore che volevo diventare prete come lui; da allora il mio parroco mi seguì con particolare attenzione. Finita la V° elementare, all’età di undici anni, sono entrato nel seminario di Treviso. La vita di seminario non fu senza difficoltà, sacrifici e fatiche, anche per il sistema educativo in uso, che risaliva ai tempi del Concilio di Trento. A ventitré anni di età, mentre infuriava la guerra, ho ricevuto l’ordinazione sacerdotale nella chiesa di Vedelago, Treviso infatti aveva appena subito un terribile bombardamento aereo. Non finirò mai di dire grazie al Signore per avermi parlato con la voce di mia madre. La felicità di essere prete mi accompagna da 56 anni. Mia madre era una donna con poca istruzione scolastica, ma di grande fede; è morta qui a San Donà all’età di novant’anni.
D. Lei è prete da più di 50 anni: tra le attività pastorali che lei ha svolto vi sono quelle di assistente alle ACLI e di parroco prima a Cornuda e poi a San Donà. Quali sono le maggiori difficoltà che ha dovuto affrontare e le più belle soddisfazioni, gioie che ha avuto in questi suoi anni di vita sacerdotale? Inoltre lei ha potuto vivere la Chiesa pre-conciliare e la Chiesa post-Concilio Vaticano II.
Quali differenze, positive e ne-gative, ha comportato questo evento per la Chiesa e per il modo di vivere la fede per i laici?
R. A ottant’anni di età è spontaneo il guardare in-dietro per tentare un giudizio sul tempo e le attività che hanno segnato la vita. Mi pare di vedere i miei 56 anni di sacerdozio distinti in tre periodi.
Gli anni dell’immediato dopo guerra: tempo segnato da fiducioso impegno, grande entusiasmo sugli obiettivi da raggiungere. E’ il tempo della ricostruzione politica ed economica dell’Italia. Fu per la Chiesa un tempo in cui si operava per ricomporre un paese, come paese cristiano. Ricordo la disponibilità all’impegno e l’entusiasmo dei giovani e degli adulti; gli incontri serali con grande assemblee giovanili, le partecipate settimane di studio su problemi sociali, l’impegno nel promuovere la formazione dei cooperative per educare alla solidarietà, i corsi di esercizi per lavoratori, le scuole sociali, l’azione politica compiuta come missione per difendere e propugnare i valori cristiani e poi la partecipazione di quasi tutti alle tante celebrazioni sacre. Giudicando quel tempo ora, mi pare di poter dire che quella situazione ci diede della sicurezze che poi sono entrate in crisi.
Gli anni del Concilio e dell’immediato dopo Conci-lio: il Concilio, con la preparazione, lo svolgimento e l’opera per metterlo in pratica, ha aperto la nostra vita e la nostra azione a nuove prospettive e ci ha aiutato ad accorgerci ed a capire che la situazione sociale e religiosa stava rapidamente cambiando, ed i cambiamenti esigevano in nuovo modo di essere presenti come Chiesa. Allora ci si mise con impegno ed entusiasmo nell’opera di attuazione del Concilio, ma l’impresa si presentò molto più difficile del previsto. Si dovette prendere atto che i punti di partenza dati per scontati non erano più quelli, perché le parrocchie, Cornuda e San Donà comprese, avevano già cambiato fisionomia e non proprio in meglio. Si aggiunsero varie forme di contestazione all’interno della Chiesa stessa. Tuttavia mi pare di poter dire che, nonostante fatiche, sofferenze e delusioni, in quel tempo maturarono convinzioni nuove ed indicazioni operative destinate ad orientare il cammino delle nostre comunità parrocchiali secondo lo spirito del Concilio Vaticano II.
Gli anni – oggi – della società dei consumi: oggi mi pare di vedere delle comunità piene di con-traddizioni; sembrano ormai perduti molti valori propri della fede cristiana. Tutti, o quasi, si ritengono ancora cristiani – sono cristiano a modo mio, si dice – e si reclama il diritto di ricevere i Sacramenti, pure mancando le condizioni dovute. Dall’altra parte ci sono persone, giovani e adulti, che maturano una fede più illuminata e convinta, sono numerosi quelli che si impegnano in onerosi servizi di volontariato. Ci si va persuadendo che i cristiani che vogliono essere fedeli alla loro vocazione, sono chiamati ad impegnarsi per formare comunità che siano vero segno della salvezza cristiana, in una società che si illude di trovare salvezza solo nei beni materiali. Se faccio i confronti tra i diversi tempi del mio lungo ministero pastorale, mi pare di poter dire che i primi tempi sono stati segnati dal disagio e dalla sofferenza di vivere accanto ad una popolazione povera e tormentata da tanti problemi irrisolti, ma gratificati dalle risposte normalmente positive alla missione del prete. Oggi invece c’è l’impressione che l’azione pastorale sia quasi sempre “lavoro in perdita” e ciò oltre che dispiacere può portare sia i preti che i laici allo scoraggiamento.
D. Mi ricordo che nelle sue omelie lei ha più volte accennato alle sue visite agli emigrati italiani, se non mi sbaglio in Canada. Facendo l’obiettore con la Caritas sento più da vicino l’evoluzione della situazione anche nella nostra società e realtà diocesana: ormai si sta passando dal problema più urgente dell’accoglienza a quello dell’integrazione nella vita quotidiana degli immigrati.
Dalla sua esperienza, quale le prospettive che sente di poter suggerire ai cristiani di San Donà?
R. Quando da giovane mi fu affidato il compito di offrire il mio servizio di prete ai tanti nostri emigrati, non prevedevo certo che con il passare del tempo avrei visto le nostre comunità cristiane impegnate sul fronte della accoglienza di stranieri immigrati in Italia. Nei primi anni cinquanta, insieme ad alcuni altri preti, seguii l’emigrazione stagionale – febbraio ottobre – dei giovani veneti (14-18 anni) nelle cascine agricole del Piemonte. Si restava allora molto amareggiati nel vedere le condizioni poco accoglienti riservate a questi giovani, che pure andavano a rendere un servizio là necessario. E non si trattava di stranieri in Italia. Nel 1953-1954 migliaia di giovani partirono dalla provincia di Treviso e di Udine per il Canada. Quando qui arrivarono notizie poco confortanti a loro riguardo, il Vescovo mi mandò in Canada per vedere come era in realtà la situazione. Trovai la maggioranza dei nostri emigrati senza lavoro e senza abitazione, dormivano sulle panchine dei giardini pubblici – per fortuna a Montreal non c’era un sindaco come quello di Treviso –. Ma ciò che più mi ferì e provocò amarezza furono le espressioni sentite dai canadesi: “Questi maledetti italiani”.
I battezzati hanno il dovere di testimoniare con fedeltà il Vangelo. Dio con le parole della Bibbia invita ripetutamente ad accogliere lo straniero come se fosse uno di noi. Stiamo attenti di non seguire il cattivo esempio di chi un tempo ha trat-tato male gli emigrati italiani. Chi viene da noi per cercare un onesto lavoro ha il diritto di ricevere da noi una giusta accoglienza.
D. Quali sono le vie che, secondo lei, il Signore indica alla Chiesa cattolica nel nuovo millennio?
R. Laici e preti dobbiamo essere uniti nell’operare verso un comune impegno: “ESSERE CHIESA FEDELE AL SUO SIGNORE”. Per raggiungere l’obiettivo è necessario che ciascuno si senta im-pegnato a formare in sé stesso una identità cristiana nell’assoluta fedeltà al Vangelo. Ritengo che siamo in molti a condividere l’obiettivo, ma siamo ancora alla ricerca di una efficace azione pastorale per raggiungerlo.
D. Quale ruolo sono chiamati a svolgere i laici in questa Chiesa del III millennio?
R. La storia della Chiesa come è stata vissuta nel millennio appena concluso, appare principalmente, con la presenza attiva di monaci, frati, vescovi, papi, qualche suora e pochi laici. Nel terzo millennio i popoli si presentano in situazioni radicalmente nuove per culture, progresso tecnico, facilità di rapporti, innumerevoli e rapidissimi mezzi di comunicazione e altro ancora di nuovo; di conseguenza in questo millennio la Chiesa si deve presentare come “POPOLO DI DIO” chiamato a testimoniare nel mondo Cristo Salvatore di tutti: non può apparire come una specie di agenzia che gestisce con persone specializzate – i preti – dei servizi religiosi. La Chiesa senza laici che testimoniano con la vita il Vangelo e si sentono impegnati ad annunciarlo, non è la Chiesa di Gesù Cristo.
D. Infine, cosa si sente di dire al Signore per questi suoi “quasi primi” 80 anni di vita?
R. Sono molto contento di essere vissuto in un secolo di grandi cambiamenti e di esperienze straordinarie; anche negli avvenimenti drammatici e tragici che hanno segnato questo tempo, ho sempre sentito la presenza di Dio Provvidente e misericordioso. Sempre lo ringrazio per avermi donato la grazia della Fede e chiamato al ministero presbiterale; ho fiducia che nella sua bontà di Padre perdoni le tante mie mancanze; sento grande riconoscenza verso tutte le persone che ho incontrato nel mio ministero di prete perché, sempre mi hanno accettato con amicizia e sopportato con pazienza. Sono lietissimo in quest’ultimo tratto di vita che il Signore mi vorrà concedere, di offrire il mio servizio di prete alla famiglia del Piccolo Rifugio e agli ospiti della Casa di riposo “Monumento ai Caduti”.