Verbale del Consiglio Pastorale parrocchiale del 15.03.2010
L’assemblea si riunisce alle ore 20.50 a Casa Saretta.
- Preghiera
- Accoglienza della vita ricordando l’esempio del medico Pietro Perin:
1) Quale l’atteggiamento cristiano per affrontare la malattia?
2) Di fronte alla sofferenza, come il Vangelo mi aiuta? come portare la Parola in queste esperienze?
Gli spazi del volontariato.
- Varie ed eventuali.
Momento di preghiera preparato e condotto da Laura Cocco Teker.
1. La prima testimonianza programmata è quella di Francesco Facci, direttore della Fondazione del Piccolo Rifugio. Egli ricorda che circa 200 volontari frequentano più volte alla settimana tutte e sette le sedi della Fondazione. Importante è allora chiedersi cosa sia il volontariato, ispirandosi a Mons. Giovanni Nervo, novantenne sacerdote della diocesi di Padova, fondatore e per anni direttore della Caritas nazionale. Il volontariato è un attività personale, spontanea, per fini di solidarietà sociale e soprattutto gratuita. Il volontariato può sostenere in modo continuativo solo i “servizi leggeri”, basati soprattutto sulla relazionalità, sullo stare-con. È importante il valore etico, culturale e politico della gratuità del volontariato. Non si tratta di sostituirsi alle istituzioni, o di supplire a quello che lo Stato o l’ente d’assistenza non fa. Il volontariato afferma la cultura della vita contro la cultura della morte. Il volontario che dedica tempo, attenzione, amore, competenza alle persone in stato di bisogno afferma infatti questa cultura della vita: l’uomo è un valore unico, supremo e irripetibile, sempre e nonostante tutto.
L’amministratore di sostegno (figura prevista dalla legge) è un aiuto in più. Una proposta che più di qualcuno degli amici del Piccolo Rifugio ha ricevuto ed accettato. Un impegno assunto con responsabilità, garantendo la propria presenza costante per un lungo periodo. Il suo ruolo è quello di tutore di una persona che non è interdetta o inabile, ma comunque non è in grado di provvedere autonomamente ai propri interessi. Si tratta in sostanza di prendersi cura del patrimonio di cui la persona disabile dispone. E ciò va eseguito non con l’ottica del promotore finanziario, bensì con quella del buon padre di famiglia, mettendo ancora una volta al centro la persona, il beneficiario.
Ci si domanda quali valori dovrebbe promuovere la comunità cristiana per educare le persone a prendersi cura di chi è debole e bisognoso. Si può educare, in primo luogo, attraverso la comunicazione. Il Piccolo Rifugio crede particolarmente nell’importanza della comunicazione, come insegnato dalla stessa fondatrice Lucia Schiavinato, la quale nel 1958 creò un giornale, “L’Amore Vince”, diretto “agli amici, con gioia, per amare insieme i fratelli”. Ci scrisse lei stessa personalmente, per anni. Ancora oggi si pubblica L’Amore Vince e si usa anche il sito web www.piccolorifugio.it, in cui si racconta che cos’è, esattamente, il Piccolo Rifugio, cosa succede davvero in questa casa, in questa famiglia. Con questi strumenti d’informazione si fa vedere che gli ospiti sono persone con pregi, difetti, idee e sentimenti, sorrisi e debolezze, come noi. Ciascuna diversa. Persone con cui instaurare relazioni vere. La migliore educazione a prendersi cura di chi è bisognoso la si raggiunge comunque frequentando di persona il Piccolo Rifugio, per conoscere gli ospiti e scoprire quanto si può da loro ricevere e pure per conoscere chi lavora o chi fa volontariato, chi ha già scoperta la bellezza del prendersi cura e la ricchezza del Piccolo Rifugio. In fondo, lo scopo del Piccolo Rifugio è dare la possibilità a chi sta fuori di fare il bene.
2. Tiziana Marusso, medico di base offre la seconda testimonianza su come il medico cristiano può aiutare il malato ad affrontare, percorrere e, possibilmente, superare l’esperienza della malattia. Tutti, indistintamente, ad un certo punto devono affrontare la malattia, e si desidera trovare dei bravi medici, umani, preparati che ci curino bene, che ci aiutino a guarire. Il più delle volte l’approccio con il modo della malattia non avviene tanto sulla nostra pelle, quanto su quella di un nostro familiare, di una persona che ci è cara e che accompagniamo in questo percorso, a volte molto doloroso. La sofferenza a volte è intersecabile con il “dolore fisico”, altre volte è permeata da un vissuto di perdita (di salute, di efficienza fisica) e quindi molto più profonda e personale. Il ruolo medico cristiano-paziente lo definisce come l’incontro tra un uomo e “un bisogno” che viene da un altro uomo; incontro assolutamente impari che proprio per questo investe il medico di una grande responsabilità; impari, ma dinamico, non statico; quel malato il più delle volte starà meglio, guarirà, mentre anche il medico potrà a sua volta ammalarsi, essere malato. Quindi nessuna supponenza, nessun atteggiamento di arbitrarietà ma solo piena consapevolezza del ruolo ed esercizio responsabile della professione. in questa dinamicità di ruoli una prerogativa importante della relazione medico-paziente è l’empatia, la partecipazione consapevole a ciò che il malato sta provando nella malattia, empatia che risulta più vera e credibile quando anche il medico ha vissuto una esperienza analoga e ne fa dono esperienziale al malato che cura (come ricordato da Ignazio Marino nel suo libro” Credere e curare”). L’esperienza della malattia è mai banale, mai riproducibile, molto personale, che alla fine, quando essa passa, se si ha la fortuna di guarire non ti lascia mai come l’hai iniziata. Spesso il malato si sente profondamente solo con la sua malattia. Spesso il paziente racconta di essersi sentito come una pratica da sbrigare, come un numero su un registro, una cartella clinica zeppa di dati, ma priva di sensazioni e di bisogni. Fondamentalmente ciò che viene lamentato è il mancato ascolto. Il paziente sente che la sua individualità non è stata rispettata, che la sua identità è stata in qualche modo annullata e da qui la sua frustrazione profonda , la sua rabbia e lo sfogo. Affermare che si è trattati come un numero significa denunciare che l’altro ci ha considerati come entità prive di emozioni, oltre che di pensieri e opinioni, di progetti, di speranze. Tali vissuti vanno ad aumentare quella solitudine con la quale tutti, inevitabilmente, ci confrontiamo, quando siamo toccati dalla malattia. Si tratta di una percezione terribile d’isolamento; la malattia fa emergere i nostri timori più profondi. Siamo soli nell’angoscia, nel dolore che affligge il nostro corpo, siamo soli nel confortare la preoccupazione dei nostri cari. Il malato va allora ascoltato, accolto da medici e infermieri. La qualità umana dell’operatore sanitario è questa: porsi dinanzi all’altro con tutto il rispetto che si deve alla sua identità, al suo essere persona.
Se una persona, ad esempio, soffre per una malattia di cuore, tutto l’individuo soffre; impossibile scindere il dolore fisico da quello mentale. La fortuna di fondo di tante medicine alternative è proprio in questo approccio “olistico” all’uomo, al suo corpo, alla sua psiche, al suo spirito ed essa nasce dall’ esigenza profonda di “ascolto” che ogni creatura umana ha in sé, molto più se affetta da qualche malattia. Competenza e Compassione sempre dovrebbero accompagnare il medico cristiano e non solo.
Riconoscere il disagio emotivo, aiutare il paziente a confrontarsi con esso, accompagnandolo in questo doloroso cammino, vuol dire non lasciarlo solo. E come avviene in tutte le relazioni di aiuto alla fine chi viene realmente arricchito è colui che elargisce la cura, non tanto chi la riceve. La sua lunga esperienza con gli anziani totalmente non autosufficienti della Casa di riposo e quella con i malati terminali seguiti a domicilio le hanno aperto gli occhi verso un modo tutto speciale di vivere la sofferenza; più essa è grande e più diventa silenziosa. Non chiede tanto di essere colmata con parole, bensì con gesti. L’anziano allettato, demente, con piaghe da decubito o il malato terminale non parlano, i primi non lo sanno più fare, i secondi non ne hanno voglia, ma ti guardano. Molto utili per la sua professione sono stati i vari seminari, soprattutto quelli di Antropologia cristiana. Essi le hanno spalancato le porte del cuore al sapere permeato dalla presenza di Cristo, uno sguardo non solo organicista ma anche psicologico e spirituale verso il malato. Ecco allora il disagio profondo di quei malati che dicono di essersi sentiti un numero in un letto di ospedale, ed ecco spiegato anche il perché della fortuna di certe medicine alternative che promuovono una visione “olistica” dell’uomo con le derive pericolose che ne conseguono tipo concetto di uomo-dio. Il paziente, allora, cosa chiede? una diagnosi corretta o “essere curato?” Entrambe le cose. Desiderano essere visitati, auscultati, toccati. La visita, sicuramente di ridotta utilità diagnostica rispetto ad un esame strumentale moderno, ha il valore di costruire un’intimità tutta speciale tra medico e paziente, a rafforzare la fiducia, a spingere l’ammalato ad aprirsi, a raccontare i propri timori e non solo i sintomi. Si crea così un legame umano tra chi cura e chi viene curato che nessun esame, per quanto perfetto, potrà sostituire. Nello stabilire questo particolare legame con il paziente è di grande aiuto essere un medico “credente”. Con Lui e con l’esperienza si accorge che ha acquisito “il terzo occhio” che le fa vedere spesso ciò che vi è “oltre” il sintomo descritto da un paziente, che magari somatizza un disagio profondo, uno stato d’ansia ecc. Ecco allora che la medicina può trasformarsi da fredda interpretazione di una indagine strumentale ad arte, l’arte della maieutica che è quella di “tirare fuori” tante cose dall’uomo che vanno ben oltre la sua corporeità. L’accompagnamento, il sostegno, la vicinanza, l’ascolto dell’ammalato riguardano non solo il medico ma ogni persona. È importante stare assieme, magari senza grandi discorsi. È importante poi aiutare gli ammalati, i disabili nella propria autonomia, senza mai sostituirsi al paziente su cosa è in grado di fare lui (lavorare molto sulle “potenzialità residue). I malati non vanno ghettizzati. La sofferenza ha un significato oblativo, di offerta. La sofferenza cristianamente va offerta, mentre il dolore (non solo quello fisico) va combattuto. A questo proposito Paolo Facci riporta una riflessione fatta a livello di diaconi secondo cui anche il dolore fisico può essere oblativo, come è avvenuto per molti Santi.
Seguono altri brevi interventi. In particolare, Laura Cocco sottolinea come la sofferenza porti solitudine e sconforto. Da cristiani va quindi coltivata una sensibilità per attivare le relazioni e quindi il sostegno, anche da parte della rete familiare.
Don Gino conclude ricordando che tutti gli stimoli di riflessione raccolti sino ad ora saranno sintetizzati in un documento che serva da stimolo e suggerimento per i singoli e tutta la comunità, magari presentato in una celebrazione liturgica che sia anche gioiosa, di consolazione.
Varie ed eventuali.
– La prossima Processione del Venerdì Santo sarà anche quest’anno organizzata in sinergia con i giovani dell’Oratorio.
– Lunedì 29 marzo, nella chiesa dell’Oratorio, il prof. Filippetti presenterà la mostra “Vangelo secondo Giotto” della Cappella Scrovegni di Padova.
– Si sta progettando verso la fine dell’anno associativo (probabile il 6 giugno) un momento conviviale, che sia occasione di ritrovo ed incontro delle varie realtà parrocchiali.
L’incontro conclude alle 23.00 con un’Ave Maria e benedizione del Parroco.
Risultano assenti: Loredano Milani, Andrea Cereser, Stefano Bincoletto, Daniel Saboanu, Ivano De Biasio, Franca Roma, don Alberto Maschio.
La segreteria