Tre testimonianze di immigrati
L’incontro del 29 novembre, organizzato dal “Forum della Città del Piave” nella Sala Bachelet della Parrocchia di San Giuseppe, ha permesso di sentire dalla viva voce di tre rappresentanti (autorevoli) della comunità senegalese, rumena ed albanese, il punto di vista degli stranieri su diversi temi: l’integrazione, l’identità, i diritti e doveri, la qualità delle relazioni, la sicurezza e prevenzione dell’illegalità, la religione…
Il punto di partenza comune è che una persona emigra perché non soddisfatta della propria condizione e quindi mantiene la speranza di migliorarla. Tutti e tre hanno realizzato il loro sogno…
MOUSTAPHA NDIAYE (senegalese)
Sono venuto in Italia nel 1987, perché non avevo lavoro per mantenere la famiglia numerosa e, perciò, per migliorare la nostra condizione. Qui sono stato ben accolto ed ho avuto la possibilità di avere un lavoro.
Nel primo periodo ho vissuto due anni di clandestinità, prima a Napoli e poi in Sicilia dove, con la Legge Martelli, ho avuto il permesso di soggiorno. Sono arrivato qui tramite un ospite della comunità di don Giovanni Baù a Santa Teresina e, nel 1990, ho trovato impiego in una fabbrica locale, dove tuttora lavoro. In quegli anni, nel territorio c’erano solo quattro case dove alloggiavamo.
Nel 1995 è arrivata anche mia moglie ed è nato il nostro primo figlio; ora, il quarto ha due anni. Ho comprato casa. Se mi fossi trovato male sarei ritornato al mio Paese.
L’associazione di cui faccio parte rappresenta circa 400 senegalesi residenti nel Veneto O-rientale. Cerchiamo di lavorare assieme alle altre associazioni (una decina) per dare consulenza, organizzare feste e per educare affinché tutti possano rispettare le regole. Noi, arrivati per primi, aiutiamo ora a trovare casa e lavoro gli altri che arrivano. Faccio parte anche della Consulta Veneta dell’Immi-grazione, istituita con legge regionale per esprimere pareri e proposte per il piano e programma del Veneto sull’immigrazione.
Come stranieri abbiamo grossi problemi (il costo del rinnovo del permesso di soggiorno, i debiti per la casa…), per i quali chiediamo aiuto. La maggior parte degli immigrati rischia la vita: lo fanno per migliorare la propria condizione di vita e quella della loro famiglia. Vogliamo rispettare le leggi, la cultura e le persone. Aiutateci a costruire ponti per costruire la sicurezza di tutti, che anche noi vogliamo.
A scuola si impara il rispetto; i bambini che subiscono delle discriminazioni ed ingiustizie, quasi fossero persone di serie C, un domani potrebbero reagire come gli studenti francesi in questi giorni…
Sono musulmano (murita), come il 95% dei senegalesi; il nostro primo presidente eletto democraticamente era però cristiano. Prima di partire sapevo che in Italia la maggior parte della popolazione era cattolica. Non ho scelto la strada della religione, ma della democrazia. Ringraziamo i preti che ci hanno aiutato (per la casa, per le nostre feste…). La religione non deve diventare un ghetto. Ci sono i concetti di giustizia, pace e legalità comuni a tutte le religioni: cerchiamo di viverli.
DANIEL SABOANU (rumeno)
Sono immigrato dopo un regime dittatoriale che ha tolto tutto (materialmente e spiritualmente), anche la dignità. Per lo Stato i cittadini erano solo funzionali a produrre.
Dall’età di sedici anni ho lavorato in una fonderia, in tre turni di otto ore. Poi, con la caduta del regime ed il passaggio della fabbrica ai privati, ci furono numerosi licenziamenti. A vent’anni volevo crearmi un futuro. Tramite la Chiesa, nel 1991 andai perciò in un primo periodo di otto mesi in Austria, per ritornare poi in Romania.
Tramite mio fratello, che studiava a Padova, arrivai a Monfumo (TV), con visto regolare. Fui aiutato da un sacerdote, che mi diede speranza. Anche un gruppo scout con il suo entusiasmo mi ha aiutato molto. Abitavo in un appartamento della scuola materna ed ero di sostegno nella parrocchia. Nel 1992 ho avuto il permesso di soggiorno.
Ho scelto l’Italia perché era più vicina alla mia cultura. Mi sono trovato bene, anche se ho avuto grande difficoltà per la lingua, per le regole (avevo solo quella di rispettare). Come da mia cultura, all’inizio salutavo sempre tutti; poi vedevo che qui non si usa…
Un amico mi ha indirizzato per le cose che mi servivano. Ebbi vari aiuti, soprattutto da gente che era già stata immigrata (per es. in Svizzera) e quindi più sensibile. All’inizio lavoravo in un’azienda agricola, anche per 16 ore (ero anche custode); poi mi fu presentato un segretario del sindacato, che mi fece capire la vera Italia, i valori di una persona. Trovai il tempo di aiutare altre persone. Come associazione dei rumeni abbiamo avuto belle opportunità, quali le feste all’Oratorio Don Bosco. Ho imparato i valori di essere un buon cittadino e buon cristiano.
Se dovessi vivere male, non rimarrei qui. Prima di emigrare volevo crearmi un futuro: ora ho una famiglia, con tre figli nati a San Donà. Ho desiderio di ritornare in Romania, ma i figli sono nati qui: l’Italia è il loro Paese.
Ci sono delle attuali difficoltà per i pregiudizi. Come rispondere alle persone innocenti che ti do-mandano: “Papà, perché ce l’hanno con noi? Cosa abbiamo fatto di male?”
C’è anche la paura, per sentirti dire che un rumeno è un pericolo sociale. In questi momenti ti devi aprire di più, per mostrare la tua vera natura e i tuoi valori al vicino di casa, al collega, al datore di lavoro. Giudicare male una comunità per il comportamento di alcuni è sbagliato. Noi per primi vogliamo fermare i delinquenti, ma non possiamo sostituirci alle Forze dell’Ordine.
I genitori hanno un ruolo importante, perché i figli ascoltano ed assimilano, nel bene e nel male i loro pareri ed atteggiamenti. Sta a noi tutti preparare la convivenza, anche tramite eventi culturali…
L’Italia è la culla del cristianesimo. C’è molta gente che va a Messa: la gente pone la speranza in Dio.
ARTAN LLANAJ (albanese)
Sono metà albanese e metà italiano, visto che sono 14 anni che sono qui. Venni nel 1993 per ragioni economiche. Finita la scuola avevo un posto sicuro, ma non bastava per mantenere la famiglia numerosa.
Emigrai da Valona e vissi tre anni da clandestino. Incontrai i problemi maggiori soprattutto per la casa. Sapevo già la lingua (da noi si vedeva la tivù italiana) e venni al Nord perché sapevo che c’era maggior sviluppo economico. Ebbi appoggio dai miei cugini e, grazie ai parenti ed amici, ottenni i documenti. Feci il ricongiungimento familiare con i genitori e fratelli. Ciò grazie alla fortuna o Dio, per chi crede (io sono ateo).
Venni a 21 anni e ora ne ho 35. Sono praticamente cresciuto qui in Italia: ho incontrato un popolo di lavoratori, la cortesia e la buona cucina. Trovo però la mancanza di mantenere la parola…
Ho sistemato la famiglia e abbiamo anche fatto un mutuo per la casa. Ho seguito poi un corso per infermiere professionale e sono impiegato come tale in una ditta privata. Ho realizzato quindi il mio sogno prima di partire dall’Albania: se ritornassi indietro rifarei tutto come 14 anni fa. Sono albanese, ma considero l’Italia il mio secondo Paese (conosco di più le strade di San Donà che non quelle di Valona).
Dai dati statistici che ho procurato in Comune, ne vien fuori una società multietnica, con 61 nazionalità diverse (i più numerosi sono nell’ordine i rumeni, albanesi, cingalesi, marocchini). La maggior parte di questi sono famiglie.
Da voi chiediamo l’aiuto di non generalizzare. Nella cronaca, alla televisione, appaiono sem-pre dati negativi.
Se incontro un credente, mi fa piacere e lo rispetto. Esiste la possibilità di coesistere. Prepariamo l’ambiente e cominciamo a dialogare. La famiglia e la solidarietà permettono di aiutarci a vicenda.
(dichiarazioni raccolte da Marco Franzoi)