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Spiritualità

Messaggio del vescovo per la Pasqua 2014

Mons. Gianfranco Agostino Gardin“Felice come una pasqua” è il detto popolare. Non so se una “felicità pasquale” appartenga davvero alla nostra esperienza di cristiani. Nel linguaggio liturgico e nei nostri sermoni noi usiamo piuttosto l’espressione “gioia pasquale”. Forse perché “gioia” sembra dire qualcosa di più interiore e più legato alla fede. “Felicità” può suonare più esteriore, o più scomposto, o più – diciamo così – profano.

In realtà c’è una grande verità cristiana in quel detto popolare che per descrivere una contentezza incontenibile la paragona a quella che scaturisce dalla Pasqua; anche se dobbiamo riconoscere che tale contentezza non sembra particolarmente evidente, di solito, nei volti di chi esce di chiesa il giorno di Pasqua. È vero che è difficile cogliere tutta la portata della risurrezione di Gesù, il suo effetto su di noi, sulla storia, sul mondo; però, siamo sinceri, spesso noi credenti di fronte all’annunzio che Gesù è risorto restiamo piuttosto freddini, e sembriamo quasi dire: va be’, si sa! Oppure abbiamo l’aria di chi dice: buon per lui, se è risorto; per noi la vita resta grama e il futuro incerto, e tanti problemi quotidiani rimangono irrisolti.

In questi giorni abbiamo bisogno di ripeterci che non esiste per il credente evento più sorprendente, più formidabile, più decisivo, più insperabile della Pasqua. La quale non è semplicemente il lieto fine – l’happy end – della storia (non della favola) di Gesù, che pareva concludersi in maniera terribilmente amara: è il lieto fine della vicenda di ognuno di noi. E non sta solo lì – per chi accoglie il messaggio dei vangeli – in quel sepolcro spalancatosi all’alba di un aprile di quasi duemila anni fa, appena fuori le mura di Gerusalemme. Sta al cuore della storia dell’umanità e si pone come fatto contemporaneo ad ogni persona e ad ogni generazione; fatto che fa la differenza non solo per la vita e la morte di Gesù, ma anche per la nostra vita e la nostra morte. Che l’esistenza umana corra verso il nulla assoluto o abbia come prospettiva il “tutto di Dio” non costituisce forse una differenza abissale? E questo non solo quando ci poniamo di fronte alla grande domanda sul perché siamo al mondo, ma anche nella “piccola” vita di ogni giorno: con i suoi gesti di amore e le sue tentazioni di odio, con le sue gioie e le sue pene, con le sue conquiste e i suoi fallimenti…

Questo lieto fine della vicenda di Gesù non è semplicemente effetto della “bacchetta magica” di Dio Padre, l’onnipotente a cui nulla è impossibile, ma ha una ragione, una forza che lo determina, è il risultato di qualcosa che l’ha preceduto. Tutto questo ha un unico nome: si chiama “amore”. L’amore di Cristo, consegnatosi liberamente alla croce, non è stato – come leggiamo nel Cantico dei cantici – “forte come la morte” (Ct 8,6), ma più forte, più grande, più potente della morte.

Il suo e il nostro “lieto fine” sono effetto del suo amore. Una donazione così immensa, così traboccante, fino alla totale consumazione di sé, non poteva essere semplicemente ingoiata e dissolta dalla morte. Il Padre ha amato talmente quel figlio sacrificato dall’amore che ha scatenato la Pasqua. E nel figlio donatosi totalmente a noi, ha amato anche noi, perché ormai nessuna cosa al mondo ci può separare dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù (cf. Rom 8,39).

Mons. Gianfranco Agostino Gardin

 

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