La Passione di Cristo in una vetrata del Duomo

Vetrata della Passione“Poi si allontanò da loro quasi un tiro di sasso e inginocchiatosi, pregava: Padre, se tu vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà. Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo. In preda all’angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra. Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza” (Lc. 22, 41-45).

Si sta avvicinando l’ora in cui il Figlio dell’uomo verrà consegnato ai peccatori. Di lì a poche ore, a Gesù che si trova con i suoi nel Getsemani a pregare, spetterà il supplizio degli schiavi, la croce. La sofferenza di Cristo nel Getsemani è aspra e amara, come mai descritta prima nel vangelo. Lui, che è stato di conforto e sostegno a molti, ora ha bisogno dell’aiuto dei suoi: “La mia anima è triste sino alla morte. Restate qui e vegliate con me”. Questo dolore morale porta al limite di sopportazione fisica il suo corpo perfetto.

“Gesù, all’estremo delle sue forze, si abbandona alla volontà del Padre e rinuncia ad ogni miracolo, rinuncia alla sua onnipotenza per condividere la dolorosa esperienza della condizione umana. L’angoscia lo opprime. Il suo sudore, intriso di sangue, gocciola dalla fronte, dal viso e cade ai suoi piedi” (B. Martelossi).

Gesù chiama questa sua sofferenza calice (“allontana da me questo calice”), che nella Bibbia assume il significato dell’ira di Dio contro il peccato: il calice è la sofferenza della separazione dalla santità di Dio causata dal peccato.

In Isaia(51, 17 e 51, 22) si legge: “Svegliati, svegliati, alzati Gerusalemme, che hai bevuto dalla mano del Signore il calice della sua ira”; “ecco, io ti tolgo di mano il calice della vertigine, la coppa della mia ira”.

“Il vero grande dolore di Cristo nel Getsemani è quello morale, derivante dall’aver assunto in sé i peccati del mondo. Egli sta pagando tutta la sofferenza e la conseguenza dei nostri peccati; sperimenta l’agonia della separazione da Dio determinata dal peccato, che gli farà gridare sulla croce – come uomo – il versetto del Salmo 22: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? I suoi discepoli, quelli che furono testimoni della sua Trasfigurazione, ora lo vedono in quella condizione, come non mai: dormono per la tristezza, come fanno i bambini impotenti per le sofferenze degli adulti.

Gesù vive in sé la terribile tristezza e dolore e la conseguenza dei nostri peccati, che producono una lacerazione tra noi e il nostro Signore: le nostre responsabilità le paga Lui personalmente. Questa sua sofferenza, derivante dallo sperimentare la divisione dal Sommo Bene causata dal peccato, non potremo mai capirla sino in fondo…” (A. M. Tentori)

“Nel giardino degli Olivi, Cristo non era padrone di nulla. L’angoscia umana non era mai salita più in alto, e mai più raggiungerà quel livello” (G. Bernanos).

Quell’immenso dolore di Cristo non è fine a sé stesso: lo ha riempito d’amore per tutti gli uomini.

Tratto da “Le vetrate del Duomo di San Donà” (2008)