Dal web due interviste a fr. Paolo Rizzetto, comboniano sandonatese

Fr. Paolo Rizzetto, combonianoRiportiamo una sintesi dell’intervista di p. Jorge Garcia Castillo al nostro concittadino comboniano fr. Paolo Rizzetto, il quale dal giugno scorso si trova nella sua nuova destinazione di servizio missionario in Sud Sudan, la Nazione che ha un anno di vita.
Dal web è possibile inoltre vedere il video di un’altra recente intervista dal Kenia (sua precedente missione) sul tema dell’assistenza e cura dei malati di AIDS.

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Roma, mercoledì 1 agosto 2012

Si chiama Paolo Rizzetto, 34 anni. È nato a San Donà di Piave (Venezia/Italia). È l’ultimo dei sei figli di Alberto Rizzetto e Rosa Cerchier. Ha sempre vissuto nella sua città natale, fino al momento degli studi universitari. Ha partecipato ai gruppi giovanili nell’associazione dell’Azione Cattolica, nell’Oratorio dei Salesiani di Don Bosco. Per l’università si è mosso a Padova, dove, da allievo interno del Collegio “Don Mazza”, ha studiato medicina e chirurgia. Oggi è nel Sudsudan. Fratello Paolo è stato intervistato da P. Jorge Garcia Castillo.

La prima cosa che ti chiedo è come sei entrato in contatto con i comboniani, perché hai scelto di diventare medico e poi comboniano e fratello.
 
Durante il secondo anno di studi universitari ho conosciuto i Missionari Comboniani ed in particolare i candidati postulanti della comunità di Padova. Ho partecipato al gruppo di spiritualità missionaria e discernimento vocazionale, durante il quale ho maturato la decisione di diventare Religioso. Mi attirò subito la vocazione di Fratello Missionario. Sono entrato in Postulato nel settembre del 2000 ed ho continuato gli studi di medicina, che ho terminato nel 2004 con la laurea e l’esame di stato nel 2005. In quell’anno vissi anche la mia prima esperienza di lavoro, in un ospedale missionario in Uganda. Il posto si chiama Matany e si trova tra i pastori semi-nomadi Karimojong. Sono rientrato nello stesso anno per il noviziato a Venegono Superiore (Varese). Dal maggio 2007 sono un Fratello Missionario Comboniano. La mia prima destinazione fu ritornare nella prima missione africana che avevo conosciuto: Matany. Ho vissuto lì due 2 anni di servizio missionario e ho praticato la professione medica.

(…)

Fr. Paolo Rizzetto, combonianoCome era la realtà con la quale eri in contatto in Kenya?

 

Non ho conosciuto molto del Kenya se non la realtà complessa e variegata della sua capitale, Nairobi, una città con quasi 4 milioni di abitanti di cui almeno 2 milioni vivono in baraccopoli. Ce ne sono 200 in tutta Nairobi. Esiste un grande problema di disoccupazione e l’inflazione è molto lata. Questo ha creato un grande divario tra i più ricchi (pochissimi) e coloro che vivono in condizioni di povertà estrema. C’è il problema della corruzione a vari livelli, ma anche tanta voglia di riscatto da parte della popolazione, che nel 2010 ha ottenuto una nuova Costituzione.
La realtà dello slum è ricca di contraddizioni e purtroppo è un ambiente dove la comparsa di nuove infezioni, per quanto riguarda l’HIV, è più frequente e la progressione della malattia verso i suoi stadi più avanzati (AIDS) è più rapida. Tutto questo va a braccetto con povertà (non solo materiale) e violenza. Una stima di questo a Korogocho viene data dai risultati delle campagne di “screening” della popolazione su base volontaria: viene chiamato “test porta-a-porta”. I villaggi dove si sa esistere più violenza o più alcolismo sono quelli con la più alta prevalenza di infezione, tra quelli che formano Korogocho: talvolta le stime raggiungono il 16-20% della popolazione visitata. Oltre alla provvisione di servizi di diagnosi cura e prevenzione, una componente importante del progetto è quella formativa.
Un’importante risorsa è rappresentata dall’impegno degli Agenti di Salute volontari. Sono loro l’anello di congiunzione tra i servizi del Progetto e le persone infette ed affette. Senza di loro non si potrebbe fare niente. Essi sono gli artefici del primo contatto: sono loro a stabilire ed accrescere la fiducia e la speranza della nostra gente. Queste persone ricevono una formazione che li permette di riconoscere i principali sintomi delle affezioni della gente e quindi di offrire un primo supporto. Essi imparano come riconoscere situazioni che richiedono l’attenzione di un professionale e stabiliscono il necessario contatto.
Un altro aspetto del Progetto è la formazione degli agenti di salute “familiari”. Parlando di una malattia cronica, è necessario, soprattutto in un ambiente come Korogocho, poter garantire che le persone ammalate siano seguite a casa, riducendo i ricoveri in ospedale, che comunque sarebbero un peso per la famiglia. Con mio grande stupore ho scoperto che nella maggior parte dei casi, chi si prende cura dei malati a casa sono… i bambini! Bambini/e dagli otto ai sedici anni sono accolti nel progetto e ricevono un minimo di formazione infermieristica che permette loro di provvedere, nei limiti del possibile ai bisogni degli ammalati o almeno di riconoscere quando è necessario riferire l’ ammalato all’attenzione di mani più esperte o all’ospedale. Ciò che colpisce è vedere bambini/e e ragazzi/e prendersi cura dei propri genitori, con grande amore e spirito di servizio.
Una grande attenzione è posta sull’aspetto spirituale: un equipe è incaricata di accompagnare pastoralmente gli ammalati e mettersi in contatto con la Comunità dei Missionari o delle guide spirituali di altre denominazioni per assistere gli ammalati con la preghiera ed i sacramenti.

(…)

Ora vai in una realtà molto diversa (Sudsudan) ma ugualmente povera e difficile. Cosa speri di poter fare?

 

La Direzione Generale mi invia in Sudsudan. Sono molto eccitato ed onorato di andare nella terra dove la missione comboniana è cominciata, anche se sono anche un po’ preoccupato della difficile situazione sociale che si sta vivendo all’indomani dell’indipendenza del nuovo Stato, la Repubblica del Sudsudan.

Mi è stato chiesto un servizio di accompagnamento nella formazione di infermieri, in un progetto gestito in cooperazione con diverse congregazioni religiose. Rimango nel campo della salute ma più nel ramo della formazione. Formare agenti di evangelizzazione e promozione umana nella chiesa e società locali, faceva parte del piano di San Daniele Comboni, come anche l’interessamento di diversi agenti di pastorale missionaria. È tutto molto entusiasmante ma rimane l’incognita di quello che potrò fare concretamente. Credo molto in questo aspetto di formazione. Spero di fare la mia parte e di imparare ancora. So che non sarò da solo come sempre è stato nella mia seppur breve esperienza missionaria.

Sei felice della tua vocazione? Per quali motivi?

 

Sono molto felice di essere Fratello missionario comboniano. Al di là dei normali limiti ed ostacoli che vivo quotidianamente, cercando di essere fedele alla vocazione ricevuta – molti dei quali derivano dal semplice fatto di essere umani e talvolta dall’ostinazione di voler essere perfetti a tutti i costi –, sono felice dell’opportunità di poter condividere la fede e la fratellanza con altre persone e altri popoli. È un’esperienza che apre molti orizzonti e mi ha aiutato a conoscermi meglio.
Essere Fratello vuol dire per me stare con la gente nella quotidianità fatta di gesti, processi e anche di lavoro e trovare in essi la presenza del Regno di Dio. È scoprire una Parola viva, che libera nella quotidianità. È la bellezza di appartenere a qualcosa di grande, anche se il mio contributo non è che una infinitesima parte di questo tutto. Eppure sono chiamato a credere che anche questo contributo è importante.

Questo cammino mi ha aiutato a guardare con più misericordia a me stesso ed ad imparare spesso dagli altri a perdonare ed ad essere vicini a chi è rimasto indietro. Spero che tutto questo mi porti a capire e a vivere sempre di più quel “fare causa comune” che San Daniele Comboni ci ha lasciato come viva eredità.

Se un giovane (ragazzo/ragazza) ti chiede se vale la pena consacrare tutta la vita alla missione, cosa le risponderesti?

 

C’è una Parola che da un po’ di tempo mi accompagna. È un passo del Profeta Michea (6,8) dove si dice “Ti è stato insegnato ciò che è bene e ciò che il Signore vuole da te: praticare la giustizia, amare con tenerezza e camminare umilmente con il tuo Dio.” Credo che queste parole si possano applicare tanto alla vita religiosa che a quella laicale. Queste parole possono essere lette e vissute dal singolo e da una comunità. Nella prospettiva missionaria esse richiedono di mettersi in dialogo con un “Tu” che è altro, rispetto alla nostra esperienza. Questo può essere il cammino di una vita. Tutti siamo chiamati a scoprire la strada. Credo che Dio non ci lascia soli se lo cerchiamo come compagno di viaggio.

(Fonte: Jorge Garcia Castillo, mccj – Copyright Missionari Comboniani 2004-2009 Credits)