Da una Chiesa del “sentir messa” ad una Chiesa “che celebra”
La riforma liturgica ha significato che le comunità e le persone pregano nella propria lingua: questo sembra un fatto indolore, che riguarda solo il comprendere e il partecipare al senso del mistero celebrato.
Non credo sia solo questo: la cosa che trasforma più in radice la spiritualità e l’azione della Chiesa è il fatto che pregare con la propria lingua, meglio ancora ricevere il dono di Dio che è la Pasqua di Gesù attraverso i propri linguaggi (non solo la parola, ma il gesto, l’immagine, la musica, le diverse presenze ministeriali, ecc) muta radicalmente il nostro rapporto con il mistero di Dio.
Dopo oltre un millennio di incomprensione del senso del mistero celebrato, che tuttavia ha prodotto stupende forme sostitutive, le quali forse hanno alimentato più il senso del “misterioso” che del “mistero” cristiano, ora preghiamo con il tessuto della nostra lingua. Con essa Dio si fa prossimo nell’alfabeto della vita umana, il cristianesimo si fa domestico, la liturgia diventa culmen et fons, condizione di verità della fede praticata, con cui offriamo i nostri corpi (la vita quotidiana) come sacrificio vivente, santo, gradito a Dio: questo è il nostro culto spirituale (Rom 12,1).
La liturgia è la sorgente e il momento intimo nel mistero celebrato, solo quando essa diventa l’alimento del culto esistenziale, della vita quotidiana luogo dell’esistenza nello Spirito, della santità della carità, della vita fraterna, della speranza nel mondo. Per meno di questo, aver tradotto l’azione liturgica nei nostri linguaggi solo per capire un po’ di più è banale, anzi può diventare pericoloso, perché un Dio che si fa prossimo attraverso la nostra lingua non è un Dio che si può mettere in tasca.
Il mistero celebrato non va addomesticato, si fa vicino alle nostre famiglie, ma per mettere le nostre case e le nostre vite in pellegrinaggio verso il Regno.
Franco Giulio Brambilla, vescovo ausiliare di Milano