Sotto la croce con Maria – Meditazione del Vescovo Gianfranco Agostino Gardin

viacrucis stazione12VEGLIA DEI GIOVANI

SOTTO LA CROCE CON MARIA
Treviso, Tempio di San Nicolò, 27 marzo 2010

Meditazione del Vescovo Gianfranco Agostino Gardin

Ai piedi della croce Maria “sta”.
Questo verbo – stare – significa anzitutto l’esserci. E già non è poco, se si pensa che i discepoli, eccetto Giovanni, sono fuggiti. E Pietro, il capo, il primo, colui che aveva dichiarato: «Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò», di fronte ad una semplice serva che lo riconosce come discepolo di Gesù reagisce imprecando e giurando: «Io non conosco quest’uomo di cui voi parlate». E “quest’uomo” (finge di non conoscerne neppure il nome) – colui che di lì a poco Pilato presenterà alla folla dicendo «ecco l’uomo» – è lì, a pochi metri, e sta dicendo a chi lo interroga sulla sua dottrina: «Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno ascoltato quanto io ho detto loro». Ma Pietro, primo testimone dell’insegnamento di Gesù, quello che gli aveva detto: «Tu sei il Cristo», sta dicendo: io? Quell’uomo? Non l’ho mai visto!

 

Dunque sotto la croce la madre, Maria, c’è; non è fuggita. C’è e “sta”. Stabat Mater. Quello “stava” significa anche: stava in piedi, stava ritta; cioè stava con dignità e senza distogliere il suo sguardo dal sacrificio che davanti a lei si stava consumando.
Ma potremmo chiederci: stava forse con una sicurezza che sfidava, o ignorava, ogni domanda, ogni angoscia, ogni dolore? Non era forse neppure sfiorata dall’oscurità che avvolgeva quel momento? Molte raffigurazioni di Maria sotto la croce la mostrano sorretta dalle donne che l’accompagnavano. Forse questa immagine è la più vera. Maria sta ritta, ma è donna, è madre, è creatura, e anche Lei, in quella vicenda così dura e così misteriosa, ha bisogno della presenza affettuosa di chi condivide e rende meno lancinante il suo dolore.

Ripeto la domanda: Maria è giunta forse impavida, sicura, olimpica ai piedi della Croce? E ha forse seguito senza interrogativi e senza ansie il cammino del suo Figlio che portava al Calvario?
Abbiamo sentito che cosa le è stato detto quando il bambino nato da lei aveva solo quaranta giorni: questo bambino sarà «segno di contraddizione». Parole misteriose, probabilmente angoscianti. E ancora: «anche a te una spada trafiggerà l’anima». Chissà quante volte quell’immagine dell’anima trafitta da una spada le sarà venuta in mente!
Potremmo ripercorrere tanti momenti della vita di Gesù che, probabilmente, hanno dato luogo a trafitture dell’anima della madre: dalla fuga in Egitto al momento in cui Gesù lascia la casa per la sua missione. Pensiamo poi a tutte le volte in cui i vangeli ci dicono che i capi dei Giudei cercavano di prenderlo, cercavano di ucciderlo, di farlo morire… Probabilmente la madre non era così ignara di quelle vicende, di quel clima, di quella crescente inimicizia verso il figlio.
Ma abbiamo ascoltato dalle parole di Marco la segnalazione di un momento particolare della vita di Gesù e di Maria. I suoi, cioè i suoi parenti, dicono: è fuori di sé, è impazzito. Marco aggiunge che gli scribi dicevano: è posseduto dal demonio. In effetti allora non si distingueva molto tra l’essere pazzi e l’essere indemoniati. E anche Giovanni, nel quarto vangelo, annota ad un certo punto: «Infatti i suoi fratelli non credevano in lui» (Gv 7,5). I suoi, compresa sua madre, arrivano. Gli dicono: tua madre e i tuoi parenti ti cercano. La sua risposta sembra quasi un rifiuto o un rinnegamento dei suoi, per la scelta di una nuova famiglia: i nuovi “suoi”, i veri “suoi”, sono altri.
Probabilmente in quella circostanza la trafittura è stata molto dolorosa. Forse il dubbio si è insinuato anche in Maria. Avrà sentito attorno a lei domande pungenti, forse anche dileggi verso quel figlio. «Colui che nascerà da te sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio», le aveva detto l’angelo all’annunciazione. Dov’è mai questo Figlio di Dio? Addirittura si parla di lui come di un pazzo!
Poi la condanna a morte. Osservo: Gesù è condannato da parte dell’autorità romana, ma di fatto la sua morte è voluta da quelle che erano pur sempre le autorità legittime del tempo: autorità religiose che un ebreo, come Maria, non poteva non riconoscere. È dunque questo il Figlio di Dio?
Per questo forse Maria è arrivata alla croce barcollante o, comunque, compiendo un cammino faticoso, con domande prive di risposte lucide. Ma è arrivata, e lì stava, quasi a dire: solo qui, nonostante tutto, trovo il mio posto.

Allora riprendo quelle situazioni succintamente raccontate, nella nostra veglia, al momento delle “lamentazioni”: degli sguardi veloci, quasi solo allusivi, su situazioni diffuse. Ce ne sono tante altre di simili. Molti di voi potrebbero raccontarle. Situazioni che sono piccole o grandi trafitture di spada, simili a quelle di Maria. E che portano con sé inevitabili domande. È possibile “stare” sotto la croce che quelle situazioni fanno sperimentare? È possibile “stare” dentro una vita segnata da vicende così aspre? E si deve forse pensare che queste storie, queste trafitture, siano volute o siano permesse – forse non c’è molta differenza – da Dio? E se proprio si deve stare, che cosa consente di stare? E a tutte tante le domande che sorgono da queste situazioni ci sono risposte? E se ci sono, sono davvero illuminanti, capaci di spazzar via ogni dubbio?

Ho detto: Maria non giunge impavida e fiera, con passo sicuro, sotto la croce, quasi sfidando a fronte alta un destino avverso come l’eroina di un poema epico. Arriva con passo incerto. Stabat Mater dolorosa. Il dolore rende insicuri, fragili, smarriti.
Vorrei mettervi in guardia dalle risposte facili alle difficili domande della vita, dalle formule subito rassicuranti, quelle che dicono: tutto è chiaro. Come pure da un’idea di Dio o di fede che pretende di spazzare via ogni dubbio, ogni timore, ogni angoscia. Non date ascolto a chi pretende di dirvi senza esitazione quello che Dio vuole da voi, o quello che ha deciso o farà per voi; o a chi vi dice che Dio risolverà ogni problema della vita, sistemerà ogni cosa storta. Lasciatele dire, queste persone, e mettetevi piuttosto in ascolto degli umili cercatori di Dio.
Non è vero – per riprendere ancora le “lamentazioni” ascoltate – che per i figli dei genitori che si sono separati, per la ragazza improvvisamente lasciata, per il prete e per la mamma terribilmente frustrati e delusi, per il giovane rimasto senza lavoro alla vigilia delle nozze, per quello che non riesce a dissuadere la ragazza dall’abortire, per l’immigrato messo alla porta, e per mille altre esperienze di sofferenza ci sia una risposta pronta, ci sia un Dio che sfodera dall’armamentario delle sue soluzioni, o delle sue consolazioni, quella buona, come un farmacista che estrae da uno dei tanti cassetti della sua farmacia la medicina adatta.

Dicevo: non fidatevi di chi ritiene di sapere tutto su quello che Dio è, pensa e fa. Dice Paolo ai Romani: «Quanto sono insondabili i giudizi e inaccessibili le vie di Dio»! E Sant’Agostino, a proposito della conoscenza di Dio, dice: Si comprehendis, non est Deus: se credi di aver capito tutto, allora quello non è Dio.
Stare sotto la croce significa anzitutto accettare che dentro la fede ci sia qualcosa di misterioso, di enigmatico, che non ci siano evidenze. Possiamo pensare che in Maria sotto la croce si sia affacciata la domanda: ma se è il Figlio di Dio, perché muore? E perché muore come un malfattore? E allora può anche succedere che ci si chieda: perché, se l’incontro di due persone che si vogliono bene per davvero è un rendersi presente di Dio – poiché dove c’è amore vero lì c’è Dio – perché Dio permette che questo amore si dissolva così improvvisamente, o sia tradito con assurda superficialità? È possibile stare, permanere, non cedere di fronte ad una situazione che aveva tutti i caratteri della positività e della gioia e che è improvvisamente andata in frantumi, senza fuggire, senza maledire, senza odiare, o senza cercare compensazioni che distruggono in poco tempo una maturità, una capacità di relazione pazientemente costruita? E la fede, in situazioni come queste, che cosa mi dice? Che cosa mi dà? Ma Dio è per me o è contro di me? E, in ogni caso, perché non è con me, non agisce a mio favore?
Faccio notare che sto pronunciando molti “perché?”. Maria, sotto la croce, ha ascoltato un perché, gridato a gran voce, riferiscono Matteo e Marco: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È il perché di Gesù. Gli esegeti ci ricordano che è l’inizio di un salmo, il salmo 22, che si conclude con parole di affidamento e di lode a Dio: «Sei tu la mia lode nella grande assemblea». Luca mette sulla bocca di Gesù morente le parole di un altro salmo: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito»; ma forse anche questo consegnarsi al Padre proviene da un perché che grida dentro di lui.
Se al cuore della nostra fede c’è la croce, allora si deve dire che al cuore della nostra fede c’è qualcosa che fa scandalo, e che essere credenti significa patire questo scandalo. Cristo crocifisso è scandalo e stoltezza, dice Paolo. Ma non c’è solo lo scandalo di un Dio che si fa debolezza totale, uomo abbruttito dal male del mondo, ma anche lo scandalo di amare chi è per definizione non amabile, ovvero il nemico, di credere che la vita vera venga dopo questa vita, che è l’unica che conosciamo, di pretendere di sperimentare il Dio invisibile e indicibile.

E c’è qualcosa di scandaloso anche in quello che in molte situazioni appare come un tacere, un rendersi assente, un eclissarsi di Dio, il non trovare ragioni di ciò che accade.
Tutti e tre i Sinottici dicono che nell’ora della morte di Gesù si fece buio su tutta la terra. Anche Maria avrà sperimentato qualcosa di quella oscurità. Forse quello degli evangelisti è un buio simbolico, ma che dice una dimensione della fede, la quale è sempre un camminare nell’oscurità. La luce del Signore, la luce che è il Signore, la luce che è la fede, non è sempre una luce abbagliante, spesso è luce umile, discreta, che penetra ma non abbacina, che si rende invisibile, ininfluente in presenza di certe luci accese dagli uomini, magari dai maghi della comunicazione. Una luce che non smaschera totalmente le nostre false identità – non ci fa deporre totalmente le nostre maschere -, non purifica tutti i nostri desideri, non raddrizza le nostre e le altrui storture.
Vorrei spiegarmi con un’immagine tratta dalla liturgia, anzi dalla celebrazione liturgica centrale di tutto l’anno: la veglia pasquale. È stata in qualche maniera richiamata anche dalla diversità di luce che ha accompagnato alcuni momenti di questa veglia. All’inizio della veglia pasquale – molti di voi lo sanno bene – entreremo nella chiesa buia illuminati solo dalla luce del cero pasquale, che è Cristo. Da quel cero attingeremo la luce delle nostre candele, cioè la sua luce per le nostre luci, per la nostra vita. Solo quando il celebrante sarà giunto all’altare si accenderanno improvvisamente tutte le luci. È un modo di dire che cos’è la Pasqua: passaggio dalle tenebre alla luce piena che è Cristo. È vero però che la nostra esistenza terrena è più vicina al camminare lungo la navata guidati solo da esili luci, che al ritrovarci in una chiesa totalmente illuminata. Questa è piuttosto l’immagine della Gerusalemme celeste, del compimento definitivo, quando, come dice Paolo, Cristo sarà tutto in tutti; quando non saremo più «nell’attesa che si compia la beata speranza», come diciamo nella Messa, perché il Signore sarà definitivamente venuto.

Ma ora siamo nell’attesa. Amiamo pensare che Maria, nel dolore e forse anche nello smarrimento, non priva – come si è detto – di perché, abbia continuato ad essere nell’attesa e a nutrire speranza, anche sotto la croce. Non come i due di Emmaus che, a causa della croce, lasciavano Gerusalemme, svuotati di speranza.
Ecco, la forza di stare sotto la croce, senza fuggire e senza accasciarsi, è data dall’attesa che comunque non cessa, dalla speranza che non viene meno, perché Dio può farci sempre riconoscere un “oltre” che riscatta il presente, un’alba dopo la notte, un “nuovo” che può sempre germogliare. Ha scritto don Tonino Bello: «La vera tristezza non è quando, la sera, non sei atteso da nessuno al tuo rientro in casa, ma quando tu non attendi più nulla dalla vita».

A me pare che Maria sotto la croce ci faccia comprendere che ci sono due modi molto diversi di vivere la fede.
C’è una fede fatta di frammenti, di piccole luci che di tanto in tanto gettano qualche bagliore sulla vita, specie sui momenti bui della vita. Ma è una luce intermittente, troppo flebile, che rimane troppo poco accesa. Sarebbe come se la nostra candela, nel cammino al buio della veglia pasquale, fosse più spesso spenta che accesa. Si scorge qualche tratto di strada, si trova qualche risposta, poi si ripiomba nel buio.
Ma ci può essere una fede che non compare solo di tanto in tanto nella vita, magari solo nei momenti difficili, ma vi rimane sempre. È un percepire, leggere, interpretare tutta la vita alla luce della fede. La vita nella fede, più che la fede nella vita. La vita intera collocata nella fede, avvolta dalla fede, più che sprazzi di fede immessi nella vita. Come dire: non la vita che cerca ogni tanto, qua e là, sicurezze occasionali dalla fede, ma la vita accolta, amata, protesa verso il futuro, dentro l’orizzonte ben più grande e sorprendente offerto dalla fede, grazie ad una fede che è come un alveo in cui il fiume della vita scorre. Per cui ogni evento, anche la croce, è accolto, interpretato, vissuto con lo sguardo della fede.
Noi crediamo che Maria sotto la croce abbia percepito, nella fede, quell’evento terribilmente doloroso e scandaloso. E quando, all’alba del primo giorno della settimana, anche a lei qualcuno ha detto: è risorto!, amiamo pensare che Maria abbia pensato: questo è quello che io mi attendevo e che la mia speranza mi diceva. Per questo sotto la croce io stavo.

Maria, donna dell’attesa e della speranza,
rendici capaci di guardare oltre il presente,
soprattutto il presente segnato dalla sofferenza.
Ma aiutaci anche a non fuggire da quella storia
in cui si dipana la nostra vita reale,
perché è questo, e solo questo,
il luogo in cui siamo chiamati a seguire Gesù,
a tentare giorno dopo giorno di farci suoi discepoli.
Aiutaci a toglierci le maschere,
le letture distorte, grette ed egoiste della realtà,
che ci falsano la percezione che abbiamo di noi stessi
e della nostra storia,
degli altri e delle loro intenzioni;
aiutaci a saper leggere con sguardo puro,
purificato dall’amore,
tutto ciò che accade in noi e attorno a noi.
Aiutaci a stare sotto la croce con te,
anche quando siamo assaliti
da difficili e angoscianti perché.
Tu che hai ascoltato lo straziante perché
gridato dal Crocifisso,
rendici capaci di collocare le nostre domande
nella sua grande, drammatica domanda,
per poter in lui, nella risposta che è lui,
ritrovare anche la nostra risposta.
Rendici desti per l’alba della risurrezione,
attesa e sperata dopo la grande tragedia,
dopo il silenzio impaurito,
dopo la gelida notte,
in cui Cristo pareva non esserci più.
Nonostante il buio tenda spesso
a soffocare le nostre flebili luci,
fa’ che il bagliore di quell’alba diventi forza di ogni giorno,
anche di quelli in cui la croce sembra gettare su tutto
un’ombra troppo grande e troppo oscura.
Noi rimarremo lì, sotto la croce, con te,
perché di quell’alba già abbiamo intravvisto il fulgore.
Amen.