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Approfondimenti

Morire con digintà o eutanasia

Proseguiamo la nostra ricerca di una parola chiara sui temi del “morire con dignità” e dell’eutanasia, che infiammano il dibattito nella società e nella politica. Ecco alcuni passaggi della “Carta degli operatori sanitari” scritta dal Pontificio consiglio della pastorale per gli operatori sanitari nel 1995.


Morire con dignità

Il diritto alla vita si precisa nel malato terminale come «diritto a morire in tutta serenità, con dignità umana e cristiana».
Questo non può designare il potere di procurarsi o farsi procurare la morte, ma di vivere umanamente e cristianamente la morte e non rifuggirla «ad ogni costo». Questo diritto è venuto emergendo alla coscienza esplicita dell’uomo d’oggi per proteggerlo, nel momento della morte, da «un tecnicismo che rischia di divenire abusivo».

La medicina odierna dispone infatti di mezzi in grado di ritardare artificialmente la morte, senza che il paziente riceva un reale beneficio. È semplicemente mantenuto in vita o si riesce solo a protrargli di qualche tempo la vita, a prezzo di ulteriori e dure sofferenze. Si determina in tal caso il cosiddetto «accanimento terapeutico», consiste «nel uso di mezzi particolarmente sfibranti e pesanti per il malato, condannandolo di fatto ad un’agonia prolungata artificialmente».
Ciò contrasta con la dignità del morente e con il compito morale di accettare la morte e lasciare da ultimo che essa faccia il suo corso. «La morte è un inevitabile fatto della vita umana»: non la si può ritardare inutilmente, rifuggendola con ogni mezzo. (119)

Consapevole di non essere «né il signore della vita, né il conquistatore della morte», l‘operatore sanitario, nella valutazione dei mezzi, «deve fare le opportune scelte, cioè rapportarsi al paziente e lasciarsi determinare dalle sue reali condizioni».

Egli applica qui il principio -già enunciato- della «proporzionalità nelle cure», il quale viene così a precisarsi: «Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi. Perciò il medico non ha motivo di angustiarsi, quasi che non avesse prestato assistenza ad una persona in pericolo».
L’alimentazione e l’idratazione, anche artificialmente amministrate, rientrano tra le cure normali dovute sempre all’ammalato quando non risultino gravose per lui: la loro indebita sospensione può avere il significato di vera e propria eutanasia. (120)

Per il medico e i suoi collaboratori non si tratta di decidere della vita o della morte di un individuo. Si tratta semplicemente di essere medico, ossia d’interrogarsi e decidere in scienza e coscienza, la cura rispettosa del vivere e morire dell’ammalato a lui affidato. Questa responsabilità non esige il ricorso sempre e comunque ad ogni mezzo. Può anche richiedere di rinunciare a dei mezzi, per una serena e cristiana accettazione della morte inerente alla vita. Può anche voler dire il rispetto della volontà dell’ammalato che rifiutasse l’impiego di taluni mezzi. (121)


Eutanasia

[…] Per eutanasia s’intende «un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati».
La pietà suscitata dal dolore e dalla sofferenza verso malati terminali, bambini anormali, malati mentali, anzianti, persone affette da mali inguaribili, non autorizza nessuna eutanasia diretta, attiva o passiva. Qui non si tratta di aiuto prestato a un malato, ma dell’uccisione intenzionale di un uomo. (147)

Non si dà per l’individuo un diritto eutanasico, perché non si dà un diritto a disporre arbitrariamente della propria vita. Nessun operatore sanitario dunque può farsi tutore esecutivo di un diritto inesistente.
Diverso è il caso del diritto a morire con dignità umana e cristiana. Questo è un diritto reale e legittimo, che il personale sanitario è chiamato a salvaguardare, curando il morente e accettando il naturale compimento della vita. C’è radicale differenza tra «dare la morte» e «consentire il morire»: il primo è atto soppressivo della vita, il secondo è accettarla fino alla morte. (148)

Tutto il testo della Carta degli operatori sanitari

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