È credibile la Chiesa? Evangelizzare, una grande impresa
Vita pastorale marzo 2012
di Severino Dianich
Nella missione si è convinti di avere con la fede una grande ricchezza di vita e si vuole che anche gli altri possano condividerla. La forma visibile della vita dei cristiani è parte essenziale dell’atto comunicativo del Vangelo.
Fra gli innumerevoli atti che compongono la missione, ce n’è uno dal quale dipende radicalmente l’esistenza della Chiesa: la comunicazione della fede a chi non crede in Cristo. È quello che il Nuovo Testamento chiama l’euanghélion. La Chiesa si è perpetuata lungo la storia solo perché ci sono stati credenti che hanno comunicato ad altri la loro fede, da una generazione all’altra e andando da una parte all’altra della terra. Il fatto risulta appariscente e assume una particolare rilevanza sociale e storica quando avviene in un popolo nel quale mai è stato annunciato il Vangelo, che non ha nella sua compagine sociale nemmeno una, oppure così poche comunità cristiane, per cui la sua cultura e i suoi costumi non sono influenzati dal Vangelo. In questi casi evangelizzare è una grande impresa, che ha sempre molto impegnato le strutture della Chiesa.
La grande ricchezza della fede
Là dove invece la fede si è ormai sedimentata sembra che questo evento non accada più. Evidentemente questo è falso. Se l’attività della diffusione della fede non è appariscente, è solo perché nei Paesi di antica tradizione cristiana la comunicazione della fede non è opera delle istituzioni ecclesiastiche, né si giova di alcuna forma organizzata: accade in seno alle famiglie cristiane, ha per protagonisti i genitori e i parenti e per destinatari i bambini.
Così in tutta Europa, da almeno un millennio, la Chiesa ha provveduto quasi automaticamente a prolungare la memoria di fede in Gesù e ad assicurare la propria sopravvivenza. Ebbene, questo incantesimo è terminato: dalla grande Russia e dai Paesi scandinavi, fino alle propaggini meridionali dell’Europa, non è più nella stragrande maggioranza della popolazione che le famiglie comunicano ai figli la fede in Cristo. Le cause del mutamento sono evidenti: l’immigrazione di cifre imponenti di non cristiani, l’aumento di genitori che non si sono sposati in chiesa, il non raro abbandono della fede da parte di donne e uomini battezzati da bambini. Da qui l’urgenza di un ritorno alla ribalta, fuori dall’intimità delle famiglie, del bisogno della comunicazione della fede fra persone adulte. Non perché la Chiesa debba essere preoccupata di non perdere la sua preminenza religiosa, culturale e politica nella società, che aveva nel passato. Fosse questa, più o meno cosciente, la motivazione, si partirebbe con il piede sbagliato. Si evangelizza per amore degli uomini, perché si è convinti di possedere con la fede una grande ricchezza di vita e si desidera, per l’amore universale al quale il Vangelo spinge il credente, che anche gli altri possano condividerla.
È chiaro, però, ad ogni cristiano che egli non può comunicare la fede solo con le parole. L’interlocutore deve poter vedere oltre che ascoltare: la forma visibile della vita dei cristiani è parte essenziale dell’atto comunicativo del Vangelo. Non si tratta, infatti, di comunicare un sapere oggettivamente appreso, ben esposto e perfettamente argomentato, destinato all’apprendimento e basta. I contenuti della fede e della testimonianza cristiana, infatti, diventano manifesti al mondo solo nella forma con cui si presentano. Nella costruzione delle relazioni interpersonali la forma non è un abbellimento gratuito dell’atto comunicativo, ma lo costituisce essenzialmente, perché non si dà alcun contenuto che risulti effettivamente comunicato, se non in quanto rivestito di una sua determinata forma. Si volesse anche dire che la forma non condiziona il contenuto in sé stesso, certamente lo condiziona nella sua possibilità di essere comunicato.
Si tratta di attrarre alla condivisione di un’esperienza di vita, che ha coinvolto tutta la personalità del credente e non solamente i suoi sentimenti e le sue intenzioni nascoste. Quindi ciò che si vede fa parte della comunicazione e determina il rapporto fra chi parla e chi ascolta. Qui la forma è sostanza.
La forma visibile della Chiesa
La responsabilità della forma con cui l’euanghélion si mostra agli occhi dell’interlocutore, inoltre, non può essere caricata esclusivamente sulle spalle del singolo cristiano che evangelizza. Non possiamo immaginarcelo solo e unico responsabile della forma che egli, attraverso ciò che gli altri vedono di lui, dà al contenuto del messaggio che egli sta comunicando.
La fede, infatti, che anima la sua vita interiore non ha origine nella sua esperienza individuale, ma viene dalla Chiesa e viene comunicata per chiamare l’altro a entrare nella Chiesa. Il credente, quindi, si guarda indietro nel bisogno di sentirsi appoggiato dalla forma visibile della sua Chiesa. Egli, inevitabilmente, s’interroga sulle sue manifestazioni pubbliche, dalle più modeste a quelle osservate dal mondo intero sugli schermi televisivi, domandandosi se stia sostenendo la credibilità della sua proposta. Il suo interlocutore, non di rado, non ha alcuna esperienza della vita umile e modesta delle comunità parrocchiali, non conosce la bella testimonianza evangelica dei tanti cristiani che dedicano tutta la vita al servizio dei poveri e degli emarginati. Egli vede solo sui giornali e alla televisione – dove appaiono solo le sue più vistose manifestazioni pubbliche – cosa la Chiesa fa e dice. Non si può, quindi, ricollocare al centro della missione il compito dell’evangelizzazione, senza interrogarsi costantemente sulla somiglianza con quella di Gesù della forma con cui la Chiesa si mostra al mondo.
Affrontare seriamente questo problema significa avviare un coraggioso riesame degli aspetti esteriori della sua vita. Non basta che sotto la forma ricca di splendore dei suoi palazzi, dei paramenti liturgici, degli abbigliamenti dei suoi rappresentanti, che le vengono dalla storia, vivano persone sante e distaccate dai beni mondani. È vero che la fede risiede nella vita interiore del credente, ma è anche vero che viene comunicata dalla forma visibile con cui la Chiesa appare al mondo, la quale deve fare da specchio alla forma con cui Gesù si è manifestato agli uomini.
Neanche le forme della sua liturgia si possono sottrarre al problema. La loro preziosità vuol suggerire ai fedeli la gloria di Dio da adorare, ma rischia di provocare nei non credenti domande imbarazzanti: cosa c’entra tutto questo con la nascita di Gesù nella stalla, con la sua vita povera, la sua ultima cena e la sua morte in croce? Non per nulla il concilio Vaticano II vuole che «i riti splendano per nobile semplicità» (SC 34). I Padri conciliari non hanno dimenticato che tutto dipende «dal rinnovamento dell’animo, dall’abnegazione di sé stessi e dal pieno esercizio della carità» (UR 7), ma allo stesso tempo hanno riconosciuto che la Chiesa deve mettere mano a una «continua riforma di cui, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno» (UR 6).
Qui dovremmo riaprire quel dossier sulla povertà nella Chiesa, che era stato elaborato durante la terza sessione del Concilio da un folto gruppo di vescovi. Paolo VI nella Ecclesiam suam aveva invitato i vescovi a dire «come debbano pastori e fedeli educare oggi alla povertà il linguaggio e la condotta» (II, 56).
Nel rapporto che poi il gruppo consegnò al Papa, corredato dalla firma di più di cinquecento vescovi, si deplorava che nella Chiesa non si fosse in grado di assumere posizioni mature sulla pratica della povertà evangelica: «Ciò è doloroso quanto sintomatico. Indica in quale misura il nostro pensiero, il nostro costume, le nostre istituzioni, tutto l’ambiente e la civiltà che pur si dice ispirata al cristianesimo, si sia per secoli e secoli allontanata dallo spirito evangelico e si sia consolidata e strutturata in forme concettuali e in modi di vita, che oggi costituiscono un grave ostacolo ad ogni tentativo di ritrovamento del senso cristiano della povertà» (“Appunti sul tema della povertà nella Chiesa. Rapporto al Papa”, in Lercaro G., Per la forza dello Spirito: discorsi conciliari, Edb 1984, pp. 157-170). Se allora, guardando all’enorme massa dei poveri del mondo, essi dicevano: «Ormai versiamo in uno stato di necessità », oggi dobbiamo dire la stessa cosa anche guardando i tanti cristiani battezzati che abbandonano la fede. Torna vivo l’imperativo del Concilio: «Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. [… Essa] non è costituita per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione» (LG 8).
Severino Dianich