14 Febbraio 2025

Duomo di San Donà

S. Maria delle Grazie – Diocesi di Treviso

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Missione

Ciò che è bene e ciò che il Signore vuole da te

Fr. Paolo Rizzetto davanti al quadro del fondatore San Daniele ComboniNell’occasione della Festa di San Daniele Comboni, si riporta il testo integrale (una sintesi è stata pubblicata nel numero di settembre 2015 del Foglietto Parrocchiale) delle riflessioni di fratel Paolo Rizzetto, comboniano sandonatese, in vista dei suoi prossimi voti perpetui.

Ti è stato insegnato ciò che è bene
E ciò che il Signore vuole da te:
Praticare la giustizia;
amare con tenerezza: camminare umilmente con il to Dio
(Michea, 6,8)

Mi chiamo Paolo. Sono un Fratello Missionario Comboniano. Certo, o so che qualcuno mi conoscerà già e sarà anche stanco o stanca di queste introduzioni… Ma non sono mai capace di trovare la giusta misura.
Dunque la bella notizia è che presto ci rivedremo di persona perché sto tornando a San Donà dopo la mia terza esperienza missionaria in Africa.

Torno da Wau, in Sud sudan, dove ho lavorato in un centro di formazione per infermieri ed ostetrici. Torno con una novità di cui vorrei far partecipe tutti voi. Sono molto contento di questa vocazione missonaria e vengo a celebrare con voi un passo molto importante.

Durante la mia presenza a San Donà celebrerò la fedeltà di Dio nel cammino fatto con la Famiglia Comboniana negli ultimi 8 anni, da quando il 26 maggio 2007, sono entrato “ufficialmente” nell’Istituto, professando, insieme ad altri compagni, i primi Voti di Povertà Castità ed Obbedienza. Ho risposto alla chiamata ad essere Fratello Missionario, un laico consacrato, per poter vivere il Vangelo nella vita di tutti i giorni, inclusa la dimensione lavorativa, che per me, essendo un medico, ha avuto a che fare con la promozione della salute ed ultimamente con la formazione di agenti sanitari.
Da quella prima volta, ho rinnovato questa promessa ogni anno e penso che ogni volta è stata un’occasione per riconoscere che il Signore è stato estremamente paziente con me e mi ha fatto capire sempre un po’ di più che, al di là delle mie miserie, la sua bontà è davvero grande. Condivido con voi questa riflessione, senza la pretesa di dirvi qualcosa di nuovo o di avere una forte base teologica. Ma condividere è un modo per crescere e quindi vivo questa opportunità con la speranza di imparare io per primo qualcosa.
Il passo che ho citato all’inizio di questa riflessione è tratto dal Libro del profeta Michea, uno dei profeti minori della Bibbia. Per tutto il capitolo 6, il profeta parla in nome di Dio, chiedendo a Israele il perché di tanta infedeltà dopo tutti i segni, dalla liberazione dalla schiavitù dell’Egitto al viaggio verso la terra promessa. Il profeta inscena un tribunale, in cui Dio chiama a testimoni le montagne ed i pilastri della terra, per chiedere a Israele il perché di una serie di continui fallimenti. Il fallimento più grande consiste nel non aver creduto alla presenza di Dio al suo fianco. Al nostro fianco.
Ad un certo punto il profeta mette in bocca al popolo di Israele questa domanda: “(Allora, se tutto questo che il Signore ha detto è vero) con che cosa mi presenterò al suo cospetto? Con migliaiia di sacrifici, di tori, agnelli e fiumi di olio profumato? Cosa è necessario per far ritornare il favore del Signore, forse il sacrificio dei primogeniti?
No. Niente di tutto questo è necessario. È straordinaria la pedagogia di Dio che – ne sono sempre più convinto – non vuole da noi sacrifici straordinari. Una sola cosa è necessaria e ci è stata insegnata. Ciò che è buono è ciò che il Signore vuole da ciascuno di noi.

Fratel Paolo Rizzetto con gli allievi scuola infermieri di WauPraticare la giustizia, amare con tenerezza e camminare umilmente con Dio. Perché è il Dio della Vita. So di condividere la riflessione di altre personalità della Vita Religiosa e che questo testo, usato per riflettere sui consigli evangelici è diventato un “classico”. Personalmente vorrei dire due cose. La prima è che, quando ho letto questo versetto per la prima volta, la mia concezione della vita religiosa è cambiata radicalmente. La seconda è che nel leggere questo versetto, sento che queste tre richieste di Dio non possono essere rivolte solo ai religiosi ma sono espressioni dell’unica richiesta di Dio, rivolta a ciascuno di noi a vivere una vita più umana, la vita che Dio ha sempre desiderato per noi. Queste tre azioni, questi tre modi di vivere sono espressione dell’unica Vita che è la vita di Dio in noi.
Però vorrei parlarvi dal mio punto di vista e, si, al momento sono un religioso! Mi piacerebbe che questa riflessione provocasse un dialogo e sarebbe bello condividere le impressioni generate con persone che vivono altre forme di vita ed altri ministeri, che rispondono nel loro quotidiano a questo invito. Speriamo di averne l’occasione!

Praticare la giustizia

È quello che viene chiamato il voto di povertà. Sono ben consapevole dell’ipocrisia di cui alcune congregazioni religiose possono essere accusate in merito a questo voto, senza escludere la mia: case enormi (e vuote); investimenti non trasparenti; rincorrere l’ultimo gadget… non possiamo dirci esenti!
Ma che cosa è allora praticare la giustizia?
Penso sia prima di tutto ricordare. Ricordare, nel significato letterale di “portare al cuore”. Quando saluti un Musulmano, non puoi fare a meno di notare che egli porterà, dopo aver stretto la tua, la sua mano al cuore. Mi sono sempre domandato il significato di questo gesto e ammetto di non aver fatto molti studi in materia. Ma, dentro di me, sento che quella persona vuole farti notare che tu sei importante per lei.
Se ricordiamo gli altri, se li portiamo al nostro cuore, allora la loro vita è importante per noi. Se questi altri sono poveri, allora ricordarli significa che non siamo totalmente estranei al loro travaglio. Significa che il loro dolore e la loro fatica potrebbero benissimo essere nostri se fossimo nati nel loro contesto o nelle loro latitudini e longitudini. E significa che, quando ci rendiamo conto che possiamo anche, volontariamente o inconsciamente, contribuire al loro disagio, allora siamo di fronte ad una scelta di giustizia da compiere. Possiamo non scegliere. Possiamo dire che non ci riguarda.
Ma possiamo scegliere: noi possiamo scegliere. Sempre. E possiamo scegliere di non essere parte di strumenti (finanziari) di morte, di processi che distruggono il Pianeta, di leggi che legittimano il razzismo. Per non dimenticare. Per ricordarci.
Ricordare che ogni uomo, ogni donna è creato ad immagine di Dio, ci chiama a scegliere per la giustizia, per mitigare le ingiustizie che ci rendono l’immagine di Dio sempre più irriconoscibile.
Praticare la giustizia è domandarmi se ho davvero bisogno di tutto, di averlo sempre e di averlo subito. È controcorrente verso la cultura (occidentale) di oggi. È ricordarsi che siamo più di quello che abbiamo, che ogni essere umano è più di ciò che possiede; e che, se ciò che posseggo mi allontana da un altro essere umano, sotto, sotto, mi sta allontanando da me stesso. E, tristemente, anche da Dio.
Praticare la giustizia, come sobrietà di vita è un modo, tra tanti, per ricordarsi che ci sono altri, che la nostra vita è interdipendente e che possiamo cambiare situazioni che sembrano insormontabili quando facciamo causa comune con chi è oppresso e schiacciato, quando facciamo nostra la causa di un altro… perché per questa altra persona quella causa è importante. Non è eroismo o martirio. Può esserlo. Ma è soprattutto una questione di identità.

Fr. Paolo Rizzetti con bambini di Wau (Sud Sudan)Praticare la giustizia, a volte, è anche fare della carità spicciola, non per sentirsi a posto con la coscienza perché saremo sempre tentati di dare “per carita’ ” ciò che siamo chiamati a ri-dare per giustizia.
Ma quel momento in cui quel fratello, quella sorella ha bisogno di un aiuto concreto, è un’Epifania, un momento in cui Dio si manifesta. Più che il “cosa dare” o il “quanto dare” dovrebbe preoccuparci il “come dare“.
C’è il rischio che il biblista Fausti ha sottolineato nella sua Lettera a Sila: “se do delle cose ai mie fratelli e sorelle, mi cercheranno per le cose. Se do me stesso, mi cerchereranno per chi sono veramente“.
Una volta durante il discernimento vocazionale ci fu lasciata questa immagine: se tuo fratello cade in una pozza di fango, potrebbe non bastare offrigli un bastone per tirarsi su. È necessario scendere con lui nella pozza e cercare di salire assieme. Un mio confratello, una volta istruedo i giovani aspiranti, disse loro che se un povero ti chiede un pane, dovresti darglielo… mentre ti inginocchi di fronte a lui.

Amare con tenerezza

Questo ha fatto proprio la differenza! Se non avessi letto questo versetto, con questa particolare traduzione, non sarei qui a parlarne come di un testo che si possa applicare ai consigli evangelici!
La dimensione affettiva delle nostre relazioni è sicuramente la più importante e la più delicata. So di scrivere in un momento in cui la Chiesa universale deve fare i conti con abusi in questo ambito ed è uno dei momenti più drammatici di cui la coscienza collettiva abbia memoria.
Mentre il rispetto dovuto alla persona deve sempre esserci, amare qualcuno è sempre amare con tenerezza, che nella Bibbia vuol dire “con viscere di compassione“, con amore uterino.
Se praticare la giustizia è “ricordare” allora amare con tenerezza è fare posto all’altro. È creare, nella nostra fragilità un posto per la fragilità di un’altra persona. Rendersi conto che l’altro è fragile, è possibile quando abbiamo fatto noi il primo passo nel riconoscere le nostre rotture, le nostre relazioni bloccate, le emozioni a volte così intense che ci spaventano… e abbiamo cominciato ad accettarle. Anche questo non viene da noi. È un cammino ed è un Dono.
La nostra speranza, il nostro più grande desiderio è incontrare qualcuno che ci aiuti a ritrovare la nostra dignità di esseri umani, di figlie e figli di Dio. Penso che il cristiano è trasformato quando l’incontro con Gesù significa incontrare il buon Samaritano della nostra vita, incontrare quella persona capace di versare vino (per pulire la sporcizia) ed olio (per lenire il dolore) delle ferite della nostra vita.

Tempo fa, mi capitò tra le mani un sussidio per educatori pastorali. La copertina mostrava un volto di Gesù ed il titolo dato al libro, era “Conto ancora su di te”. Non so perché ma quel titolo e quel volto mi colpirono molto. Probabilmente venivano in un momento in cui non pensavo veramente che qualcuno potesse contare su di me. Però, a pensare bene, questo è stato il messaggio che in modi diversi ha risuonato spesso nel mio cuore. Qualcuno conta su di me. Qualcuno vede in me qualcosa che io non so o non voglio vedere. Qualcuno riesce a vedere del buono in me al di là di come mi vedo io.
Abbiamo bisogno di questo sguardo. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci guardi con occhi più misericordiosi dei nostri. È così che impariamo a vedere il potenziale negli altri: dopo che qualcuno ha osato vedere il nostro. Quando questo accade, scopriamo di poter essere conosciuti esattamente come siamo. Ed abbiamo bisogno di essere conosciuti. Ci vuole un po’ a trovare le persone giuste…

Amare con tenerezza è amare, riconoscendo che l’altro porta in sé una fragilità che è anche un po’ mia. E forse, condividendola, qualcosa di nuovo nasce. È come l’esperienza che fanno ad un certo punto gli alcolisti anonimi: chi potrebbe credere che da due vite buttate possa nascere qualcosa di bello? Eppure il primo gruppo di AA nacque quando due persone, semplicemente comiciarono a raccontarsi la propria vita. Spesso è condividendo le proprie miserie con una persona fidata che si trovano nuovi punti di vista per leggere la nostra vita.

Amare con tenerezza è un cammino che invita a fidarsi della propria interiorità, avendo sempre a cuore l’interiorità dell’altro. È delicato. Soprattutto quando si scopre che un altra persona sta entrando nel tuo cuore.
Il nostro cuore è come una casa con molte stanze: ricordi, memorie, esperienze, sia gioiose che dolorose. Dovremmo sentirci “a casa”, nella casa del nostro cuore, ma ci sono stanze dove inconsciamente o volontariamente scegliamo di non entrare. A volte noi lasciamo entrare qualcuno dove, da soli, non ci sentiamo di andare. Altre volte incontriamo qualcuno che ci lascia entrare nelle stanze del suo cuore. È questo che chiamo intimità.
Intimità, in inglese, si dice “intimacy” e per assonanza è molto vicino all’espressione “into me see” (letterelamente: “vedi dentro di me”). È vero. Chi è intimo a me è colui o colei che vede dentro di me.
Nel nostro cuore ci possono essere stanze che sono rimaste chiuse per molto tempo. Siamo noi ad avere le chiavi. Ma, a volte abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica: “Le chiavi di questa stanza, dove non vuoi entrare, sono proprio lì con te. Se vuoi, apri la porta ed entreremo insieme!”

Può sembrare che stia dedicando un sacco di tempo e spazio a questo aspetto. Infatti, è quello in cui, sinceramente ho trovato, nel viverlo, più difficoltà. Ma è anche quello che può dare senso alla nostra umanità. C’è forse un problema: quando qualcuno ti da fiducia, condivide con te gioie e sofferenze, affida alla tua spalla – o al tuo cuore – le sue lacrime… è difficile non rimanere legati da un vincolo di affetto reciproco su cui siamo sempre chiamati a vigilare, per non rovinarlo. Per non fare dell’altra persona un mezzo.
Amare con tenerezza è amare le persone (una alla volta, quando le incontriamo) ed usare le cose. Non viveversa. Vorrei dirlo ancora, forse più a me stesso che a qualcun altro. Amare le persone ed usare le cose. Non vicecersa.
Quando entriamo in un rapporto di intimità, secondo quanto ci lasciamo coinvolgere, possiamo essere più o meno affetti. Corriamo il rischio di creare co-dipendenza. Io posso arrivare a dipendere dall’altro, pensando che l’altro stia dipendendo da me: dal mio affetto, da mio supporto, dal mio consiglio… È bene esserne consapevoli. La consapevolezza è già un passo importante. È quando non ne siamo consapevoli che, anche con le più buone intenzioni, rendiamo l’altra persona un mezzo.
E certo, particolarmente nel guardare a relazioni in cui possiamo essere più emotivamente coinvolti, ci vuole attenzione, sincerità ma anche umiltà misericordia verso noi stessi ed una buona dose di umorismo perché non siamo fatti esattamente di ferro…!

A proposito… Vorrei condividere una storia che ci ha raccontato un nostro confratello durante gli anni di formazione. Si immaginava un religioso bussare alla porta del Paradiso e trovare il Signore (forse era il giorno libero di Pietro…) a chiedergli: “Ma tu sei stato puro nella tua vita terrena?” – “Si!” “Puro e immacolato come la neve?” – “Si, sempre!” – ” Ti sei tenuto a distanza da quelle persone che ti potevano indurre in tentazione?” “Si, assolutamente, non hanno mai avuto parte con me!” – “Eh, allora, non sei mica buono per questo posto perché è vero che sei stato candido come la neve… ma sei stato anche freddo come la neve!”
Ora, scherzi a parte, posso solo condividere che siamo tutti in cammino su questo aspetto della nostra vita. Ma volevo anche dire che, con tutte le mie fragilità il voto di castità è una chiamata ad amare con tenerezza. Quando mi sono fidato di questa Grazia e ho creduto che fosse possibile, che questa Grazia potesse operare anche attraverso di me, con la mia personalità e la mia inadeguatezza, nell’abbraccio di un’altra persona ho scoperto l’abbraccio di Dio, Padre e Madre.

Camminare umilmente con Dio

Un grande rischio che si corre nella società di oggi è quello della auto-referenzialità: rispondere solo a sé stessi. Le comunicazioni sono diventate velocissime. Siamo bombardati di notizie e a volte dobbiamo prendere decisioni in merito a molteplici eventi. Tutto è molto frenetico. Forse non riusciamo più a starci dietro. Mi trovo spesso ad identificare la mia esperienza di ascolto a quella descritta dalla parabola del seminatore: quel seme che cresce in mezzo alle spine e cresce, si ma soffocato da tante ansie e preoccupazioni. Si tratta di riprendere a cuore una dimensione importante della nostra vita: il silenzio per la riflessione.
Abbiamo bisogno di ritrovare il valore del discernimento. Alla base di questo c’è l’idea che abbiamo di Dio. Quante volte, pregando il Padre Nostro. Arriviamo a quel punto dove diciamo: “Sia fatta la tua volontà…” e lo diciamo con timore, con l’apprensione che questa volontà si compia davvero!
Ed ecco, crediamo che Di voglia nient’altro che il nostro bene? Me lo chiedo in prima persona. La Fede ci dice che è così ma la nostra ragione ci tradisce spesso e volentieri. Eppure Dio cammina con l’Umanità. Si è messo in ascolto e per ascoltarci meglio, si è fatto uno di noi. Ha camminato con noi.
Un libro di un autore Ebreo, Martin Buber, raccontava una storia in cui un Rabbino diceva: Dio non dice “questa strada porta a me e quest’altra invece no”. Dio dice: “ogni strada porta fino a me a patto che tu voglia davvero incontrarmi”.
Camminare umilmente con Dio è credere di essere parte di un progetto più grande di noi di cui non siamo i proprietari ma a cui siamo chiamati a dare il nostro personale contributo. È sentirsi accompagnati e sapere che la sua mano è sulla nostra testa.

Camminare con Dio richiede umiltà perché il nostro giudizio può essere fallace e perché crediamo nello Spirito che ci è stato donato. E non solo a noi, personalmente, ma anche a chi intraprende questo viaggio con noi. A ciascuno lo Spirito Santo dà un dono particolare. A volte i doni del singolo sono sufficienti a cambiare una parte del mondo. Più spesso, credo, i doni condivisi di una comunità di vita e di fede parlano più efficacemente del modo di agire di Dio.
Ancora una volta, i religiosi non possono dirsi esperti di discernimento anche se, a ben guardare, l’esperienza dei primi cenobi di monaci fu un’esperienza veramente fraterna. È interessante che nella Regola Benedettina, la parola “Fratello” ritorna più spesso nel capitolo circa la correzione ed il perdono di un monaco “fuori dalle righe”. È come se, dove uno più avrebbe la tendenza a fare da sé, la Comunità funziona come uno specchio per aiutare il singolo a riprendere possesso della propria natura umana, quella appunto di essere fratelli e sorelle di qualcuno, di appartenere ad una comune figliolanza.
Penso che la scommessa più ardita sia credere che le risposte che non vengono da me, nonostante i miei sforzi, i miei studi e i tanti protocolli che so applicare, possono venire quando, insieme a qualcuno, vedo la realtà con occhi diversi, appunto i suoi. La verità di un discernimento comunitario è sempre qualcosa tra la mia i verità e la verità che l’altro porta con sé.
È una ricerca del bene comune perché “la Gloria di Dio è l’uomo vivente”. È cercare che cosa è il progetto di Dio per l’Umanità. In alcune società africane questo è molto forte ed in alcuni contesti, decisioni importanti vengono prese solo dopo che si è raggiunto un consenso. È chiamato, in alcune società, “Ubuntu” che vuol dire: “Io sono perché Noi siamo”; o “Io esisto perché Noi esistiamo”; o ancora, “Io vivo perché Noi viviamo”.

E, sì, lo abbiamo capito. Camminare umilmente con Dio può essere letto nel voto di obbedienza che i Religiosi sono chiamati a pronunciare, nella vita comunitaria che sono chiamati a vivere e nella missione che sono chiamati ad abbracciare. Lo dico con la consaepvolezza di chi, al momento in cui vi scrivo, sa di essere destinato ad un nuovo posto ed ad una nuova esperienza di missione. So di essere chiamato a ricominciare. E sono un po’ ansioso a riguardo…
Ma tutti siamo chiamati a camminare umilmente con Dio perché l’obbedienza è obbedienza a Lui che è il Dio della Vita, alla sua Parola di Vita ed alla Vita dell’umanità che è la sua immagine. È – e diventa – un’esperienza che fa rima con quotidianità. Con la vita di tutti i giorni, quella di un padre di famiglia che lavora per i suoi cari, di una madre che, tra tante faccende, deve trovare il tempo per lo sport del figlio, per le crisi della figlia adolescente, per la cura del babbo non più autosufficiente… per tutto ciò che richiede di essere presenti, di esserci con amore. È dove scoccia di più che il discernimento è quello tosto… è quando scegliere di esserci, scoccia di più dello scegliere di non esserci affatto.

Camminare umilmente con Dio è cercare un Dio sorprendente, in luoghi inaspettati. È fermarsi, sedersi, con la nostra gente… e lasciare che Dio accada e ci sorprenda! Accade nell’ascolto della sua Parola. Un monaco di Camaldoli, disse un giorno, ai giovani della Diocesi di Treviso riuniti in un convegno: “Se fai entrare il Vangelo nella tua vita, alla fine le tue mani profumeranno di Vangelo!
All’epoca, ero anch’io tra quei giovani. Non ho mai dimenticato queste parole. Forse non le ho sempre vissute. Ma continuano ad accompagnarmi.

Un ultimo pensiero

Mi scuso per la lunghezza di questo testo. Ammetto che quando mi viene data l’occasione, mi scivola un po’ la mano sulla tastiera. Torno a San Donà con il desiderio di condividere con voi la celebrazione dei Voti Perpetui come Fratello Missionario Comboniano. Per tutta la vita. Non posso certo dire di essere capace di vivere al 100% quanto ho scritto sopra. Ma credo che sia il modo più bello che Dio ha per dirmi: “Ti voglio bene!”
È questo che il Signore vuole da te. Il tuo bene. Te lo ha insegnato.
Vi chiedo di ricordami nelle vostre Preghiere perché questa consacrazione sia, nella mia inadeguatezza e nella mia fragilità che vi affido, praticare la giustizia, amare con tenerezza e camminare umilente con il Dio della Vita. Per un mondo un po’ più umano. Perché le nostre mani profumino di Vangelo.

Frat. Paolo Rizzetto Missionario Comboniano