Assemblea diocesana di conclusione dell’anno pastorale-Intervento del vescovo
Assemblea diocesana a conclusione dell’Anno pastorale 2009-2010 Tempio di San Nicolò – Treviso, 4 giugno 2010
Intervento di mons. Gianfranco Agostino Gardin
Come i discepoli di Gesù, e da discepoli di Gesù, ci siamo dunque ritrovati questa sera attorno al nostro Maestro, portando a Lui i frutti e le fatiche del nostro lavoro; sapendo però che solo Lui «conosce quello che c’è nell’uomo» (Gv 2,25), e quindi solo Lui conosce i veri frutti di ogni fatica pastorale. Per questi frutti, quelli da noi percepiti e quelli a noi sconosciuti, lodiamo il Padre, attraverso il Figlio, nello Spirito Santo.
Senza dubbio quest’anno pastorale è stato diverso dagli altri, a causa dell’evento del cambio del Vescovo. E qui mi verrebbe quasi da chiedere scusa per il fatto che questo cambio ha interrotto, o quanto meno rallentato, un cammino pastorale portato avanti con molto impegno da mons. Andrea Bruno Mazzocato; anche se è evidente che questo cambiamento ci ha visti, ambedue, semplici esecutori di decisioni prese non certo da noi. Mi auguro che tale evento, se può aver causato qualche disagio al proseguimento di un percorso pastorale seriamente elaborato, abbia comunque aiutato la Diocesi a tenere viva la consapevolezza del suo essere Chiesa, comunità chiamata a vivere con coraggio la sua testimonianza cristiana in questo luogo e in questo tempo.
Per parte mia, sono ben consapevole che in quest’ultimo decennio, in particolare a partire dal Sinodo Diocesano del 2000 sul terna La parrocchia centro di vita spirituale per la missione, la nostra Chiesa è stata sollecitata a mettere in atto un notevole sforzo di riflessione, di discernimento e di rinnovamento, anche con l’apporto di numerosi e ricchi strumenti: penso al corposo testo conclusivo del Sinodo del 2000, alle varie lettere pastorali di mons. Mazzocato e, in particolare, alla sua ultima ampia Esortazione Pastorale, Camminate nella carità come Cristo ci ha amato» (Ef 5,2).
Devo ribadire la mia convinzione – già espressa altre volte – di trovarmi in una Chiesa viva, che si alimenta ad una solida tradizione di vita cristiana, sacerdotale e laicale, ad una concezione e una prassi consolidate circa la centralità della parrocchia, ad un apporto ricco e stimolante di organismi diocesani attivi e diretti da persone qualificate; una Chiesa animata capillarmente da tanti bravi parroci, cappellani e sacerdoti impegnati in servizi centrali della Diocesi, come pure da zelanti diaconi permanenti e da fedeli operatori pastorali laici (penso in particolare ai numerosi catechisti, come pure ai membri dei Consigli pastorali parrocchiali e dei Consigli per gli affari economici); una Chiesa arricchita dalla presenza di persone consacrate, appartenenti a vari Istituti, dedite alla preghiera, all’educazione, a vari servizi pastorali, al ministero delle Confessioni; dalla presenza e attività di tanti membri dell’Azione Cattolica e di altre aggregazioni, e, ancora, dalla presenza di numerosi volontari che in molti modi prestano la loro opera in seno alle parrocchie, in particolare negli oratori. Non posso dimenticare, infine, la preziosa e viva realtà del Seminario e delle varie scuole di formazione teologica, che impegnano vari formatori e docenti. Di tutto questo non posso che benedire il Signore.
Non nascondo la mia esitazione, a soli quattro mesi dal mio ingresso in questa grande Diocesi, a tracciare linee precise per un cammino pastorale definito e coinvolgente.
Vorrei però indicare almeno alcune prospettive che considero irrinunciabili. Lo faccio anche tenendo presente quanto è emerso, oltre che dal consiglio illuminante dei più stretti collaboratori, da due proficue riunioni: una con i responsabili dei vari Uffici pastorali (il 13 maggio scorso) e una, in particolare, con il Consiglio presbiterale (il 19 maggio scorso).
1) La prima prospettiva che desidero indicare per il nostro cammino futuro è quella della continuità.
L’impegno assiduo di questi anni, addirittura incalzante quanto a stimoli venuti dal centro della Diocesi, non va assolutamente disperso o vanificato. La nostra Chiesa è stata chiamata a lavorare molto sul piano del discernimento. Voglio solo ricordare, perché ci danno un’idea dell’ampiezza del lavoro svolto, quelli che mons. Mazzocato aveva considerato come “nuclei nevralgici” per il cammino della Diocesi, emersi nel Convegno diocesano del giugno 2006, quali frutti di un ampio discernimento circa la trasmissione della fede: nuclei che avevano portato ad individuare il necessario lavoro successivo (cf. Adoratori e rnissionari. La trasmissione della fede in Gesù Cristo, oggi. Primo anno: adoratori, n. 3). Essi erano:
– la coerenza tra fede e vita;
– l’ascolto orante della Parola di Dio;
– l’Eucaristia e sacramenti;
– l’esperienza dell’incontro con Dio in Gesù;
– una confessione di fede completa nelle verità fondamentali;
– la formazione come percorso di crescita nella fede durante tutta la vita cristiana;
– la comunità parrocchiale come esperienza che realizza un’autentica comunione;
– la famiglia soggetto privilegiato.
Evidentemente questi elementi disegnavano un orizzonte molto ampio, all’interno del quale il Vescovo aveva poi situato un duplice impegno, relativo sia alla dimensione di fede, sia a quella più operativa, impegno espresso nel tema “Adoratori e missionari”.
Alla successiva domanda posta all’inizio dell’ultima Esortazione Pastorale su come mettere a frutto le luminose indicazioni emerse dallo Spirito in questi anni, il Vescovo rispondeva con «un progetto che orienterà la vita e l’azione pastorale della Dicesi per più anni, presentando subito i punti di riferimento e le indicazioni di cammino fondamentali» (Camminate nella carità, n. 9). Si tratta – veniva precisato – di un “cantiere aperto”.
Il progetto, come è noto, comportava tre vie (da percorrere simultaneamente):
a) la liturgia: per attingere alle sorgenti della Carità di Cristo, mediante Parola e Sacramenti;
b) l’educazione: per formare le coscienze alla Carità di Cristo;
e) il rinnovamento delle comunità cristiane: per essere rigenerati dalla Carità di Cristo e divenire capaci di trasmetterla. Questo con particolare attenzione: a) al senso di appartenenza; b) alla comunione e collaborazione ecclesiale; e) alla famiglia; d) ai poveri e agli stranieri.
Volendo dunque assicurare una certa continuità, il nostro cammino deve riprendere a partire da questo punto. Qui si inserisce la riflessione compiuta con il Consiglio presbiterale e con gli Uffici pastorali.
Penso di poter legittimamente sintetizzare il risultato della riflessione emersa con detti due organismi nella scelta, per il nostro cammino futuro, del tema dell’educazione.
Questa scelta si spiega – come molti di voi forse hanno intuito – anche con un desiderio di sintonia con il cammino della Chiesa italiana, che a questo tema ha deciso di dedicare l’impegno pastorale dei prossimi dieci anni. Parlando a noi Vescovi italiani riuniti in assemblea generale a Roma, otto giorni or sono, il Papa ci ha detto: «Vi incoraggio a percorrere senza esitazioni la strada dell’impegno educativo». E ha aggiunto, tra l’altro:
«II compito educativo, che avete assunto come prioritario, valorizza segni e tradizioni, di cui l’Italia è così ricca. Necessita di luoghi credibili: anzitutto la famiglia, con il suo ruolo peculiare e irrinunciabile; la scuola, orizzonte comune al di là delle opzioni ideologiche; la parrocchia, “fontana del villaggio”, luogo ed esperienza che inizia alla fede nel tessuto delle relazioni quotidiane. In ognuno di questi ambiti resta decisiva la qualità della testimonianza, via privilegiata della missione ecclesiale. L’accoglienza della proposta cristiana passa, infatti, attraverso relazioni di vicinanza, lealtà e fiducia. In un tempo nel quale la grande tradizione del passato rischia di rimanere lettera morta, siamo chiamati ad affiancarci a ciascuno con disponibilità sempre nuova, accompagnandolo nel cammino di scoperta e assimilazione personale della verità. E facendo questo anche noi possiamo riscoprire in modo nuovo le realtà fondamentali».
A me pare che il tema dell’educazione, una delle tre vie indicate da mons. Andrea Bruno, può consentirci di proseguire nel cammino intrapreso. Del resto essa rimanda necessariamente alla Liturgia e alla Comunità quali luoghi indispensabili e privilegiati della educazione, così come la famiglia e altre realtà quotidiane fondamentali. E, d’altra parte, il tema dell’educazione ci riconduce a quell’essenziale e decisivo compito, di cui siamo tutti investiti, che è la trasmissione della fede (alla quale anche il Papa ha fatto riferimento nel discorso citato).
Una concisa e densa frase di Tertulliano, grande teologo vissuto a cavallo tra il II e III secolo, presente nel documento CEI – ancora in fase di elaborazione, come dirò tra breve – dice bene la ragione fondamentale dell’impegno educativo a cui è chiamata ogni comunità cristiana: «Fiunt, non nascuntur, christian»: cristiani, non si nasce, si diventa. Della verità di questa affermazione stiamo diventando sempre più consapevoli in forza dei rapidi cambiamenti che stanno avvenendo anche nella nostra società, sempre più post-cristiana: il contesto socio-culturale non genera dei cristiani, né favorisce una loro crescita nella fede; se non vi è un’adeguata educazione cristiana, si rischia di nascere e crescere indifferenti, o atei, o pagani.
Accennavo al documento della CEI sul tema dell’educazione, che determinerà gli orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020. L’ultima assemblea dei Vescovi, che ha avuto luogo la scorsa settimana, ha suggerito delle ulteriori modifiche (dopo la stesura di successive bozze); perciò la sua pubblicazione avverrà solo dopo la riunione del Consiglio permanente della CEI del prossimo settembre. Questo fatto potrà forse rallentare o rendere un po’ più difficoltosa la progettazione del nostro cammino per il prossimo anno pastorale, ma non impedirne una delineazione sufficientemente definita, anche perché gli orientamenti della CEI danno spazio ai singoli piani pastorali diocesani.
Voglio anche ricordare che nell’ultima stesura – e non credo che questo elemento subirà modifiche – gli Orientamenti della GEI indicano come scelta educativa prioritaria quella riguardante l’iniziazione cristiana. E tra le osservazioni emerse nel corso della citata ultima assemblea più di qualcuno insisteva «sull’importanza della Liturgia come esperienza educativa della vita della Chiesa, specie nella sua dimensione mistagogica, e sul valore della “comunità parrocchiale educante”» (Sintesi dei gruppi di studio e relazione conclusiva di mons. C. Nosiglia). Emergono dunque le tre vie dell’Esortazione Pastorale di mons. Mazzocato, e questo mostra la sintonia tra le indicazioni della CEI e il cammino della nostra Diocesi.
2) La seconda prospettiva che desidero affermare senza alcuna esitazione – anche in questo caso confortato dal parere autorevole del Consiglio presbiterale e anche degli uffici pastorali – riguarda le Collaborazioni Pastorali. E anche in questo caso siamo nella linea della continuità.
Non mi soffermo a tracciare la breve storia di questa iniziativa, da molti dei presenti ben cono¬sciuta. È noto che il primo tentativo di una loro elaborazione è di mons. P. Magnani (Decreto Orientamenti operativi riguardanti le “Unità pastorali” in Diocesi di Treviso, 2001); successivamente mons. A. B. Mazzocato metteva meglio a punto il progetto, preferendo, tra l’altro, la denominazione di Collaborazioni pastorali.
Si tratta di un percorso avviato, rispetto al quale le opinioni personali o le disponibilità ad assumerlo possono essere diverse; un percorso che non può certo essere semplicemente “pre-cettato”, cioè stabilito e imposto dall’alto, ma che esige di essere pensato insieme, assunto con convinzione da clero e laici e che ha bisogno di essere debitamente verificato nelle sue attuazioni o sperimentazioni.
Voglio però sottolineare che la posta in gioco non è solo la soluzione più o meno felice ed efficace del problema dato dal calo numerico dei preti, ma una nuova consapevolezza di ciò che significa rendere le comunità cristiane realtà vive, anche in presenza di condizioni nuove – dentro e fuori la Chiesa – rispetto a quelle del passato. Non si tratta dunque soltanto di salvare in qualche modo le parrocchie, anche quando non si può provvedere ad un parroco per ognuna di esse, ma di assumere un modo nuovo di essere Chiesa, ripensando il rapporto clero-laici, superando un eventuale “paternalismo” del clero, cui corrisponde un certo “infantilismo” dei laici. Si tratta, inoltre, di fare in maniera che la gestione delle molte strutture parrocchiali non fagociti anche gli spazi e i compiti più propria mente sacerdotali e missionari del pastore; e si tratta di pensare a forme nuove di gestione condivisa della pastorale (che è fatta di relazione tra preti e preti, tra preti e laici, tra laici e laici).
Credo che nessuno ritenga quella delle Collaborazioni pastorali una formula magica o un cammino in discesa. Esse richiedono a tutti la disponibilità a rinunciare a qualcosa, una certa conversione spirituale ed ecclesiale, il superamento di campanilismi un po’ gretti e attardati su posizioni che la storia tende, che lo si voglia o no, a lasciare alle spalle. Soprattutto richiedono, a sacerdoti e laici, un senso vivo della comunione, che è condivisione, aiuto reciproco, volontà di costruire unità, impegno a praticare il decisivo “comandamento nuovo” dell’amore reciproco. Senza questi atteggiamenti, vi saranno parroc¬chie, chiese e campanili, ma non necessariamente “comunità cristiane”.
Ritengo perciò che la scelta delle Collaborazioni pastorali, e il cammino verso la loro attuazione, si debba considerare un punto di non ritorno. Perciò faccio appello a tutta la nostra Chiesa ad accogliere questo progetto come una risposta evangelica alla sfida che ci è posta dalle nuove condizioni storiche della nostra Diocesi; confortati anche dal fatto che altre Diocesi hanno percorso questi itinerari prima di noi.
Del resto la Commissione che si occupa delle Collaborazioni pastorali sta elaborando un testo di Orientamenti e norme, che aiuterà a procedere con idee più precise e con linee operative meglio de¬finite in questo cammino.
In ogni caso, nella nostra Diocesi è stata fatta la scelta di un procedere con pazienza, per diffu¬sione di un’esperienza più che per applicazione di una riforma, puntando, per così dire, più sul “contagio” di un modo nuovo di fare chiesa che sulla istituzione di schemi da calare rigidamente nelle varie zone pastorali. Credo che questa sia una metodologia rispettosa delle persone e delle comunità. Tuttavia l’attuazione di questa scelta non può diventare talmente aleatoria, incerta e lenta da dare la sensazione frustrante di un cantiere aperto all’infinito.
3) Ho accennato al necessario coinvolgimento dei laici in questo progetto ecclesiale delle Col¬laborazioni pastorali; e non v’è dubbio che i laici saranno ancor più chiamati in causa nell’impe¬gno educativo che ho indicato come fondamentale impegno della Diocesi. Voglio richiamare che anche nelle riflessioni offerte dal già citato Consiglio presbiterale è emerso con una certa insistenza l’invito a riconoscere e valorizzare maggiormente la realtà laicale nella nostra Diocesi.
Non si vuole certo ignorare che sono molti gli impegni che vedono protagonisti i laici, come ho già accennato. Qualcuno avverte però, quanto alla presenza dei laici, un certo “vuoto ecclesiologico”, di cui può essere indice l’attuale assenza del Consiglio pastorale diocesano (sia pur per ragioni giustificabili e contingenti). Nessuno di noi deve pensare che, nel far vivere la Chiesa, i laici siano una sorta di lusso, di sovrappiù, o di supplenza. Né si tratta di far fare ai laici ciò che il clero in calo numerico, diaconi compresi, non arriva più a fare, ma di far in modo che la Chiesa sia Chiesa, e soprattutto che la comunità cristiana sia davvero collocata dentro quel mondo e quella storia, rispetto ai quali i laici hanno più titolo dei preti per essere protagonisti cristiani, discepoli di Gesù che portano il vangelo nella quotidianità della vita.
Se poi si dovrà assumere un rinnovato impegno nell’educazione, emergeranno ambiti (come, per esempio, famiglia, scuola, lavoro, la dimensione affettivo-sessuale, ecc.), in cui sono i laici le persone dotate di maggior competenza ed esperienza. Noi clero abbiamo bisogno che i laici immettano nella Chiesa il senso delle realtà, l’attenzione a ciò che fa la vita quotidiana delle persone, per evitare il rischio che fede e vita concreta diventino due aree tra loro incomunicabili e lontane, producendo così uno spiritualismo disincarnato ed vanescente.
Segnalo anche la suggestiva, e peraltro impegnativa, richiesta del Papa, nel suo discorso alla Curia romana del 21 dicembre scorso, di «aprire una sorta di “cortile dei gentili”, dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa». Ai laici compete, per la loro spesso quotidiana vicinanza con chi non crede, l’impegno del dialogo con coloro che noi chiamiamo solitamente “i lontani” (senza peraltro sapere se sono solo lontani da noi, magari a causa dei nostri scandali, o anche lontani da Dio: ciò che solo Lui sa). Mi sia permesso, su questo tema, la citazione di alcune righe tratte da un articolo di mons. G. Ravasi, apparso su L’Osservatore romano due giorni fa:
«Senza attesa di conversioni o di inversioni di cammini esistenziali, ma soprattutto evitando le diversioni del vuoto, nella banalità, negli stereotipi, gentili e cristiani – i cui “cortili sono contigui nella città moderna – possono scoprire consonanze e armonie pur nella loro difformità; possono deporre i linguaggi soltanto autoreferenziali e possono far alzare lo sguardo a un’umanità spesso troppo curva sull’immediato, sulla superficialità, sull’insignificanza, verso l’Essere nella sua pienezza. Un po’ come suggeriva in uno dei suoi Canti ultimi padre David Maria Turoldo:
“Fratello ateo, nobilmente pensoso,
alla ricerca di un Dio
che io non so darti,
attraversiamo insieme il deserto.
Di deserto in deserto andiamo oltre
la foresta delle fedi,
liberi e nudi verso
il Nudo Essere
e là
dove la parola muore
abbia fine il nostro cammino.“
4) Voglio anche raccogliere la raccomandazione di chi chiede che, dopo anni segnati da attenzioni particolari – anno sacerdotale, mariano o altro – si favorisca l’impegno a valorizzare al massimo l’ordinarietà della vita ecclesiale e comunitaria. Questa, del resto, come ben sappiamo, offre già ritmi (penso all’anno liturgico), impegni (penso alla catechesi e alla carità e a tante iniziative, “ordinarie”, appunto) e risorse (penso alla Parola di Dio e, ancora una volta, alla Liturgia): realtà tutte in grado di dare sapore, oltre che richiedere un lavoro incessante, alla vita cristiana e alla vita pastorale di ogni comunità.
Concludo. Vi ringrazio per la vostra attenzione, oltre che per il vostro convenire, che ci fa sentire Chiesa viva, aperta ai segni che il Signore non cessa di farci scorgere. Voglio ancora una volta ringraziare i miei predecessori, e in particolare mons. A. B. Mazzocato, per il cammino tracciato con sapienza e abbondanza di stimoli, come pure tutti coloro che hanno finora percorso con fedele impegno tali itinerari.
Nel mio primo saluto, il 7 febbraio scorso, appena messo piede in Diocesi, accolto nella parrocchia di Santa Maria di Sala, mi è venuto spontaneo dire a quella comunità: «Aiutatemi ad aiutarvi» (sottinteso: ad essere cristiani veri). Lo ripeto, con umiltà e affetto fraterno, anche questa sera a voi: aiutatemi ad aiutarvi ad essere cristiani. Aiutatemi ad essere cristiano con voi, con semplicità e amore. E aggiungo: aiutiamoci tutti reciprocamente, con vero affetto fraterno, ad essere cristiani qui e oggi. Abbiamo bisogno gli uni degli altri.
Il Signore benedica ogni nostro sforzo di essere Chiesa, umile e fedele al nostro Maestro, Cristo, e di praticare con coerenza quel Vangelo, che è la vera “bella notizia” della nostra vita.
Ci aiuti Maria, nostra Madre. Ci aiutino i Santi protettori della nostra Diocesi.
Gianfranco Agostino Gardin
Arcivescovo-Vescovo