Cento anni fa
CENTO ANNI FA
di Marco Franzoi
Verso le ore 13 del 30 ottobre 1918 i soldati italiani della Terza Armata entrarono a San Donà.
Mentre il parroco mons. Saretta era ancora profugo a Portogruaro, assieme alle suore di Maria Bambina ed a molti cittadini sandonatesi, mons. Bettamin (che fu parroco prima di Saretta, tra il 1903 e il 1914, e non dimenticò mai questa comunità) giunse a Musile da Treviso in bicicletta; quindi, attraversò il Piave su una passerella, seguendo le ultime colonne militari che procedevano verso Portogruaro.
Dopo il primo blocco imposto dalle sentinelle, un ufficiale fece passare il sacerdote quando egli gli disse lo scopo che lo muoveva: “Voglio portare un bacio ai miei figli!”
E da lì in poi cominciò lo strazio per mons. Bettamin. Attraversò la cittadina deserta, priva di strade, con gli edifici distrutti, tra le macerie accatastate e i grovigli di reticolati: era trasformata in una grande trincea!
Possiamo solo immaginare i suoi sentimenti mentre transitava davanti alle macerie della canonica, del campanile e soprattutto del Duomo: quanta fatica aveva speso assieme ai fedeli per completarlo, per rendere quella chiesa degna Casa di Dio… Ogni mattone di quella chiesa aveva un nome!
Da quelle macerie si sarebbe potuto recuperare molto poco: le acquasantiere, le due statue in marmo di San Francesco e della Vergine del Rosario, la lapide di dedicazione della prima chiesa, il fonte battesimale, l’altare nella cappella del Battesimo di Gesù: questi manufatti sono ancora presenti nel nostro Duomo di San Donà.
Tra quelle macerie il nuovo parroco di San Donà, mons. Saretta, avrebbe di lì a poco trovato un crocifisso, posto da mano ignota, che tuttora è conservato all’entrata dell’attuale Duomo.
Mons. Bettamin proseguì verso Calvecchia ed incontrò i primi civili, pallidi, magrissimi, che non ebbero la forza di chiedere nulla a lui che fu il loro parroco: egli, tuttavia, mise sulle loro mani tremanti il pane e formaggio che aveva portato da Treviso.
Abbracciò una vecchietta, dandole un bacio sulla fronte e dicendole: “Nonna! Per voi, e per tutti i miei buoni figliuoli di San Donà, così sfortunati, e che io amo tanto, questo bacio dica che il vostro vecchio arciprete vi portò sempre nel cuore; dica che è con voi in quest’ora della vittoria, e lo sarà domani nelle difficoltà della vita!”
Proseguì ed arrivò alle scuole di Calvecchia davanti alle quali, su alti pioppi erano ancora presenti le forche tedesche, cui erano stati impiccati come traditori i legionari cecoslovacchi, passati con l’esercito italiano e catturati nella battaglia del solstizio di giugno.
Lì Bettamin scoppiò in un pianto dirotto e si accasciò a terra: era come gli fosse passata davanti l’immagine dei lunghi mesi di sofferenza, dei morti per guerra malattie e fame, delle violenze e barbarie!
Alcuni soldati in transito lo accolsero su un loro carro e lo condussero sino a Ceggia, presso il viceparroco don Giovanni Rossetto.
Questi era febbricitante per l’influenza “spagnola”, frastornato dagli avvenimenti e dalla fame, e non seppe fornire notizie di mons. Saretta, né dell’altro cappellano don Marin (che era profugo a Caorle). Così, dopo aver abbracciato mons. Bettamin, il giovane sacerdote si allontanò confuso. Il giorno seguente fu ricoverato in una baracca e per vari giorni si temette per la sua vita. In seguito, rimessosi in salute, don Rossetto l’anno successivo sarebbe diventato il parroco di Noventa di Piave, sino al 1967.
Anche a Ceggia mons. Bettamin poté constatare le distruzioni della guerra. Cercò il sindaco Giuseppe Bortolotto, ma senza successo.
Intanto, dal 2 novembre gli ultimi soldati bosniaci, che coprivano la ritirata dell’esercito austro-ungarico iniziata il 28 ottobre, lasciarono Portogruaro.
Il 3 novembre, sempre in bicicletta, mons. Bettamin fece ritorno a Treviso, dove riprese la sua intensa vita di lavoro, ancora più feconda per le nuove difficoltà create dalla guerra. La sera di quel giorno l’esercito italiano entrava in Portogruaro finalmente liberata.
Il giorno 5 novembre mons. Saretta, solo e a piedi, rientrò a San Donà; lo stesso giorno fu a Treviso per incontrare il Vescovo e salutare il compaesano mons. Bettamin.
Di lì a poco, avendo come base casa Lizier a Ponte Alto di Calvecchia (edificio ancora presente sulla Triestina), valendosi dei collaboratori e delle autorità civili, mons. Saretta sarebbe stato il motore per gettare le basi della ricostruzione materiale e morale di San Donà di Piave.
Marco Franzoi